Sette contro Tebe, il Teatro Romano ospita il Teatro Greco
Teatro Romano di Verona
15 e 16 luglio 2017, ore 21.00
Incontro con Marco Baliani
13 settembre ore 17.00 – Ingresso libero
Istituto Nazionale del Dramma Antico
SETTE CONTRO TEBE
di Eschilo
regia e adattamento testo di Marco Baliani
PERSONAGGI E INTERPRETI
Aedo Gianni Salvo
Eteocle Marco Foschi
Messaggero Aldo Ottobrino
Araldo Aldo Ottobrino
Antigone Anna Della Rosa
Danzatori Massimo Frascà, Liber Dorizzi
Coro Accademia d’arte del dramma antico
Ingresso gratuito per spettatori con disabilità e loro accompagnatori limitatamente ai posti disponibili.
Tebe è una città assediata, in preda al panico.
Una città contesa tra eserciti fratelli.
È la paura la protagonista dell’intera opera, una paura fomentata dai suoni, dal clamore e dagli echi dell’esercito nemico che circonda la città.
È una città svuotata, abitata più da donne che da uomini, come tutte le città contemporanee dove la guerra e l’assedio sono stillicidio quotidiano. Tebe è come Sarajevo ieri, come Aleppo oggi. Le donne sanno che a loro toccherà essere stuprate e ridotte schiave, non possono far altro che pregare lontane divinità per avere un conforto al terrore che le invade
Tutti i personaggi dell’opera sono vittime di uno stallo dell’animo, una sospensione di azione in attesa del massacro o della estrema lotta che porterà comunque rovina.
Quando il Messaggero descrive la terribilità degli scudi dei sette guerrieri nemici che si apprestano ad assaltare le sette porte della città, proietta su quegli scudi la paura dell’intera città, lo scudo nemico diviene il luogo fisico e circoscritto del panico che ha invaso gli animi.
Eteocle deve faticosamente trovare altre parole che rendano inefficaci le apocalittiche visioni del Messaggero, riducendo i sette guerrieri nemici a umanissimi corpi contro cui scagliare altri corpi guerrieri, i sette eroi tebani che li affronteranno, compreso lui stesso che si scontrerà alla settima porta col fratello Polinice.
La maledizione che pesa sulla città, quella lanciata ai figli- fratelli dal padre -fratello Edipo è pura metafora, serve al mito, non alla realtà, serve a dare un nome all’indicibile.
Eteocle è un eroe fragile, L’efficacia delle sue parole si misura solo sul plauso del popolo, prima ancora che sulla scena della battaglia.
Fin dall’inizio si scontra con la donne impaurite, scaricando su loro l’ansia dello scontro imminente.
Antigone è figura anch’essa fragile, attonita di fronte alla catastrofe, guidata unicamente dall’istinto. A lei, fin dall’inizio metterò in bocca parole che spetterebbero al coro, perché la guerra fratricida avviene da subito anche all’interno della città, è una guerra tra fratelli malnati.
La scissione finale tra chi vorrebbe seppellire Polinice e chi no è quello che sempre accade dopo una vittoria, quando comincia la spartizione cruenta tra i vincitori alleati, quello che è accaduto alla Libia dopo Gheddafi, quel che accadrà a Mosul tra breve, quel che accadde a Berlino nel secolo scorso.
Il coro delle donne e degli uomini non è un coro, non si muove compatto, non parla all’unisono, è fatto di individui, ognuno con la sua particolare forma di tremore e di reazione.
L’adattamento del testo, a partire dalla bella traduzione di Giorgio Ieranò, inventa un linguaggio di concretezza assoluta, niente incisi, niente declamazioni, niente voli coloristici, tutto è presente, composto di terra, di materia, le parole lottano col poco tempo che resta a disposizione.
Sarà uno spettacolo in corsa, di azioni continue, di movimenti corali ideati da Alessandra Fazzino, che non devono però mai apparire come pure coreografie. Gli scudi saranno composti coralmente da corpi metamorfici, in folgoranti quadri iconici.
Il suono e la musica di Mirto Baliani saranno determinanti, saranno loro a muovere i corpi, li assedieranno, li condurranno recalcitranti alla conclusione tragica del finale.
Sulla scena pensata da Carlo Sala ci sarà un grande albero totem che è il luogo di un culto contadino e pastorale, niente altro, tranne alcune pietre-cippi che segnano il perimetro circolare della città.
Nel finale l’antica agorà diverrà una terra bombardata, fatta di crateri, mentre i corpi dei superstiti diverranno quotidiane immagini di profughi in fuga.
Chiude la sezione prosa la tragedia Sette contro Tebe di Eschilo proposta nella nuova traduzione di Giorgio Ieranò. La collocazione dell’evento a metà settembre è piuttosto insolita per la manifestazione. Ma dal momento che le due serate coinvolgono le scuole medie superiori del Nord Italia, era necessario attendere la ripresa dei corsi scolastici 2017-18. La tragedia di Eschilo ha debuttato il 6 maggio al Teatro Greco di Siracusa.
Collegandosi idealmente con Riccardo II sul tema del potere e della guerra, Sette contro Tebe descrive con icastico nitore il terrore della guerra e richiama in modo diretto ed efficace il dramma epocale dei popoli che oggi, alle porte d’Italia e nel bacino del mediterraneo, vivono in stato d’assedio e di guerra con le sofferenze che rimbalzano quotidianamente anche sulle società europee.
«Tebe – dice Marco Baliani – è una città assediata, in preda al panico, contesa tra eserciti fratelli. È la paura la protagonista dell’intera opera, una paura fomentata dai suoni, dal clamore e dagli echi dell’esercito nemico che circonda la città. Una città abitata più da donne che da uomini, come tutte le città contemporanee dove la guerra e l’assedio sono stillicidio quotidiano. Tebe è come Sarajevo ieri, come Aleppo oggi.
Quando il Messaggero descrive la terribilità degli scudi dei sette guerrieri nemici che si apprestano ad assaltare le sette porte della città, proietta su quegli scudi la paura dell’intera città. Eteocle – prosegue Baliani – deve faticosamente trovare altre parole che rendano inefficaci le apocalittiche visioni del Messaggero, riducendo i sette guerrieri nemici a umanissimi corpi contro cui scagliare altri corpi guerrieri, i sette eroi tebani che li affronteranno, compreso lui stesso che si scontrerà alla settima porta col fratello Polinice. Eteocle è un eroe fragile, L’efficacia delle sue parole si misura solo sul plauso del popolo, prima ancora che sulla scena della battaglia. Fin dall’inizio si scontra con le donne impaurite, scaricando su loro l’ansia dello scontro imminente. Antigone è figura anch’essa fragile, attonita di fronte alla catastrofe, guidata unicamente dall’istinto. A lei, fin dall’inizio metterò in bocca parole che spetterebbero al coro, perché la guerra fratricida avviene da subito anche all’interno della città, è una guerra tra fratelli malnati. La scissione finale tra chi vorrebbe seppellire Polinice e chi no – conclude Baliani – è quello che sempre accade dopo una vittoria, quando comincia la spartizione cruenta tra i vincitori alleati, quello che è accaduto alla Libia dopo Gheddafi, quel che accadrà a Mosul tra breve, quel che accadde a Berlino nel secolo scorso».
Dopo la pausa ferragostana l’Estate Teatrale Veronese si chiude con la tragedia Sette contro Tebe di Eschilo. La propone venerdì 15 e sabato 16 settembre alle 21.00 al Teatro Romano l’Istituto Nazionale del Dramma Antico con la regia di Marco Baliani. Protagonisti Marco Foschi e Anna della Rosa. Mercoledì 13 incontro con Baliani presso l’Università.
VERONA – La 69a edizione dell’Estate Teatrale Veronese si chiude con la tragedia Sette contro Tebe di Eschilo in programma al Teatro Romano venerdì 15 e sabato 16 settembre alle 21.00. La propone l’Istituto Nazionale del Dramma Antico con la regia di Marco Baliani nella nuova traduzione di Giorgio Ieranò. Ne sono interpreti Marco Foschi, Anna della Rosa, Aldo Ottobrino, Gianni Salvo, Massimiliano Frascà, Liber Dorizzi e il coro dell’Accademia d’Arte del Dramma Antico.
La collocazione dell’evento a metà settembre è piuttosto insolita per la manifestazione. Ma dal momento che le due serate coinvolgono le scuole medie superiori del Nord Italia, è stato necessario attendere la ripresa dei corsi scolastici 2017-18. Dopo il debutto lo scorso 6 maggio al Teatro Greco di Siracusa, la tragedia viene eccezionalmente riallestita al Teatro Romano collegandosi idealmente con Richard II (che aveva inaugurato la stagione) sul tema del potere e della guerra. Sette contro Tebe descrive infatti con icastico nitore il terrore della guerra e richiama in modo diretto il dramma epocale dei popoli che oggi, alle porte d’Italia e nel bacino del mediterraneo, vivono in stato d’assedio e di guerra con le sofferenze che rimbalzano quotidianamente anche sulle società europee.
«Tebe – dice Marco Baliani – è una città assediata, in preda al panico, contesa tra eserciti fratelli. È la paura la protagonista dell’intera opera, una paura fomentata dai suoni, dal clamore e dagli echi dell’esercito nemico che circonda la città. Una città abitata più da donne che da uomini, come tutte le città contemporanee dove la guerra e l’assedio sono stillicidio quotidiano. Tebe è come Sarajevo ieri, come Aleppo oggi.
Quando il Messaggero descrive la terribilità degli scudi dei sette guerrieri nemici che si apprestano ad assaltare le sette porte della città, proietta su quegli scudi la paura dell’intera città. Eteocle – prosegue Baliani – deve faticosamente trovare altre parole che rendano inefficaci le apocalittiche visioni del Messaggero, riducendo i sette guerrieri nemici a umanissimi corpi contro cui scagliare altri corpi guerrieri, i sette eroi tebani che li affronteranno, compreso lui stesso che si scontrerà alla settima porta col fratello Polinice. Eteocle è un eroe fragile, L’efficacia delle sue parole si misura solo sul plauso del popolo, prima ancora che sulla scena della battaglia. Fin dall’inizio si scontra con le donne impaurite, scaricando su loro l’ansia dello scontro imminente. Antigone è una figura anch’essa fragile, attonita di fronte alla catastrofe, guidata unicamente dall’istinto. A lei, fin dall’inizio ho messo in bocca parole che spetterebbero al coro, perché la guerra fratricida avviene da subito anche all’interno della città tra fratelli malnati. La scissione finale tra chi vorrebbe seppellire Polinice e chi no – conclude Baliani – è quello che sempre accade dopo una vittoria, quando comincia la spartizione cruenta tra i vincitori alleati, quello che è accaduto alla Libia dopo Gheddafi, quel che accadde a Berlino nel secolo scorso».
Nell’ambito delle iniziative sul tema “Regalità e potere nel teatro shakespeariano e classico” organizzate dall’Università di Verona e dal Teatro Scientifico, mercoledì 13 alle ore 17.00 presso l’aula Seminari T15 nel chiostro di S. Maria delle Vittorie (lungadige Porta Vittoria 41), Guido Avezzù e Gherardo Ugolini intervisteranno Marco Baliani. Interverrà all’incontro anche Silvia Bigliazzi.
MARCO BALIANI (1950) – Nel 1975 fonda la compagnia Ruotalibera con cui realizza alcuni spettacoli per ragazzi. Con Kohlhass (1989) si cimenta nel teatro di narrazione di cui è tutt’oggi uno dei massimi esponenti insieme a Marco Paolini e ad Ascanio Celestini. Tra le opere teatrali di cui ha curato la regia, Antigone delle città, Peer Gynt e Pinocchio nero. «La sua poetica – scrive Fiaschini – si fonda sullo stupore e l’incantamento di fronte a quanto narrato o inscenato: in questo si può notare l’eco dei suoi esordi nell’ambito del teatro ragazzi e nella scrittura di fiabe». Nel cinema è stato diretto, tra gli altri, da Mario Martone, Francesca Archibugi, Roberto Andò e Saverio Costanzo.
MARCO FOSCHI (1977) – Figlio dell’attore e doppiatore Massimo Foschi, esordisce nel cinema con Tartarughe dal becco d’ascia (1999) e, dopo alcuni anni dedicati al teatro, torna al cinema nel 2003 con Fame chimica e Le intermittenze del cuore. Nel 2003 vince il Premio Ubu come “nuovo attore” per la sua interpretazione di Pilade nell’omonima opera teatrale di Pasolini. Nel 2007 si fa notare nella commedia Come tu mi vuoi ed è protagonista del film di Peter Del Monte Nelle tue mani. In teatro è spesso diretto da Antonio Latella con il quale Foschi intrattiene da molti anni un produttivo sodalizio artistico. Ha lavorato e lavora molto anche nel campo del doppiaggio.
ANNA DELLA ROSA – La sua interpretazione cinematografica più celebre è quella della “non fidanzata” di Romano (Carlo Verdone) nel film La grande bellezza di Paolo Sorrentino. Diplomata all’Accademia d’Arte Drammatica Paolo Grassi, ha interpretato diverse opere teatrali tra cui La trilogia della villeggiatura di Carlo Goldoni con la regia di Toni Servillo e Peperoni difficili di Rosario Lisma con la regia dello stesso Lisma.
ALDO OTTOBRINO (1972) – Dopo avere lavorato come operaio per alcuni anni, scopre, nei primi anni Novanta, il teatro. La sua vita cambia. Si diploma alla scuola di recitazione del Teatro Stabile di Genova nel triennio ’93-’96 e inizia la sua carriera di attore teatrale, alternandosi tra testi classici e contemporanei. Lavora con registi di fama nazionale e internazionale, tra i quali Matthias Langhoff, Lluis Pasqual, Marco Baliani, Marco Sciaccaluga, Tonino Conte, Valerio Binasco, Giorgio Gallione e Fausto Paravidino.
TEATRO. Venerdì e sabato rappresentazioni programmate per le 21
«È assedio a Tebe E noi metteremo in scena la paura»
Simone Azzoni
Marco Baliani, regista dell’opera in cartellone al Romano, anticipa i temi della tragedia di Eschilo: «Immagini, suoni, parole: al centro resta il conflitto»
Marco Baliani racconta la guerra. Sette contro Tebe in programma al Teatro Romano venerdì e sabato alle 21 non è solo la guerra di Eschilo. A Tebe si declina il paradigma delle città devastate, i legami familiari distrutti, le leggi, la giustizia e le certezze perdute. La guerra rivelata dal regista di spettacoli cult come Kohlhaas è la guerra di Aleppo, di Sarajevo, di donne violentate dalle milizie, dei corpi dei dittatori insepolti o contesi, è la guerra che parla con simboli teatrali chiari ed esemplari. È un discorso che parte anche dalla scenografia, una piattaforma in cui alberi diventano totem per un rito senza speranza. «Tebe» dice Marco Baliani, «è una città assediata, in preda al panico, contesa tra eserciti fratelli. È la paura la protagonista dell’intera opera, una paura fomentata dai suoni, dal clamore e dagli echi dell’esercito nemico che circonda la città. Una città abitata più da donne che da uomini, come tutte le città contemporanee dove la guerra e l’assedio sono stillicidio quotidiano». Una paura che prende la forma del coro e s’incarna nei protagonisti in balia dei frutti delle loro scelte scellerate, che siano vincitori o vinti, nella legge o fuori dalla legge. «Eteocle», prosegue Baliani, «deve faticosamente trovare altre parole che rendano inefficaci le apocalittiche visioni del Messaggero, riducendo i sette guerrieri nemici a umanissimi corpi contro cui scagliare altri corpi guerrieri, i sette eroi tebani che li affronteranno, compreso lui stesso che si scontrerà col fratello Polinice. Eteocle è un eroe fragile, L’efficacia delle sue parole si misura solo sul plauso del popolo». Anche Antigone, relegata nel finale da Eschilo, nella rilettura di Baliani diventa protesi del coro, «una figura anch’essa fragile, attonita di fronte alla catastrofe, guidata unicamente dall’istinto». Spettatrice impotente di una guerra che prima di essere con un nemico «altro» è all’interno della città stessa, tra due fratelli malnati: Eteocle e Polinice che avevano stretto un accordo per regnare un anno ciascuno. Eteocle, però, allo scadere del mandato, non cederà il regno a Polinice che con altri sei guerrieri di Argo assedierà le porte di Tebe scontrandosi mortalmente col fratello davanti ad una di esse. Le scene e i costumi della versione già passata a maggio a Siracusa sono di Carlo Sala, le musiche di Mirto Baliani, le coreografie di Alessandra Fazzino, la traduzione di Giorgio Ieranò. In scena Marco Foschi, Anna della Rosa, Aldo Ottobrino, Gianni Salvo, Massimiliano Frascà, Liber Dorizzi e il coro dell’Accademia d’Arte del Dramma Antico.
Eschilo – I sette contro Tebe
Personaggi della dramma:
- Eteocle
- Corriere esploratore
- Coro di fanciulle tebane
- Antigone
- Ismene
- Banditore
Folla di Tebani, guerrieri. Il luogo: l’acropoli di Tebe.
Opera
Folla di anziani e di ragazzi. In mezzo, spicca Eteocle.
ETEOCLE
Uomini di Cadmo! Dire pronti rimedi, via via: è dovere, per chi è attento, fedele ai suoi impegni di Stato. Dal ponte pilota il paese, manovra la barra. Ciglia immote, inquiete. Senza riposo.
Certo, se la fine è benigna, un Celeste è radice. Altrimenti – no, non deve accadere! – se il destino rovina, un nome, uno solo rimbomba ossessivo per piazze e per strade, risacca stridula d’urli, fra note gementi, a imprecare: «Eteocle!» O Zeus che storni, concreta il tuo nome, fa’ scudo alla gente di Cadmo! A voi. Al vostro dovere immediato.
Ognuno – chi ancora non tocca l’età del rigoglio maturo, chi la vita ha sfiorito, chiunque è nel fiore del tempo – s’accumuli dentro vivo gemmare di forze, ciascuno a misura di sé: a voi presidiare lo Stato, gli altari dei nostri dèi del paese. Oh, non sia spenta mai la loro religione! Poi i figli, la Terra materna: ci ha nutrito, l’abbiamo nel sangue! Lei si faceva appoggio amoroso al vostro arrancare di bimbi, lei salutava con gioia sacrifici, fatiche per crescervi. V’ha fatto uomini, braccia buone allo scudo, da fidarsi, quando l’ora critica giunga.
Oggi è giunta. Ecco, fino ad oggi il dio s’è librato propizio dalla parte di Tebe. È vero: un periodo, finora, di ferreo blocco per noi, ma intanto, quante battaglie risolte in successo! Dio ci aiutava.
Ora è diverso. L’annuncia il veggente: lui, mandriano d’alati. Non gli serve la fiamma. Con l’udito, coi sensi del cuore scruta in volo gli indizi rivelatori.
Scienza sincera, la sua. Lui, che di tali pronostici è saldo maestro, rivela: «Assemblea notturna d’Achei; si parla d’offensiva durissima; scatterà con l’agguato». Quindi forza, volate in massa ai bastioni, ai varchi del baluardo. Via, corazzati di ferro. Gremite, lassù, i parapetti. Radicatevi ai corridoi delle torri. Coraggio, immoti davanti alle uscite, agli sfoghi di Tebe. Niente tremori alla densa folata del nemico che viene. Frutterà bene dal cielo.
Io feci uscire le scolte, a scrutare l’armata, là fuori. Missione non cieca, punto tutto su loro. Dopo il rapporto, non c’è rischio che m’avvolga l’agguato. La folla sciama alle mura, ai posti di combattimento. Irrompe uno della scolta.
CORRIERE
Eteocle, principe di Tebe! Eccomi. Porto fresche notizie di là, dal nemico. Pura realtà. Io, non altri, ho visto spiando.
Sono sette. Uomini capi d’armata. Vibrano, tesi.
Dissanguano un toro, sopra un incavo cupo di scudo. Tuffano il pugno nella pozza di morte. Ecco – su Guerra, su Eccidio, su Panico ghiotto di sangue – giurano fermi: o fare di Tebe macerie contorte, brutale razzia sul paese di Cadmo; o cadere, cementare col sangue questo suolo di Tebe. Ciascuno sceglieva la propria reliquia: ghirlanda al carro d’Adrasto, per i vecchi, laggiù tra le mura di casa. Pianto spioveva: non gemiti, oltre le labbra.
Sì , cuori d’acciaio e da essi folate roventi di febbre guerriera. Leoni, diresti, sciabolate di odio dagli occhi! Non è vecchio, non ristagna l’annuncio dei fatti. Anzi – io mi staccavo, pian piano – c’era già spartizione. Dall’urna, ciascuno estraeva a che soglia guidare la propria colonna.
Devi reagire. Schiera di volo ai tuoi varchi d’uscita i perfetti campioni, il fiore di Tebe. È l’ora, ci è addosso l’armata nemica, blocco di ferro che assale, polvere alta, scrosci di bava lucente dalle froge al galoppo, a chiazzare il terreno. Tu, si direbbe, hai buona esperienza di manovra alla barra, sul ponte. Quindi rafforza la chiglia di Tebe, prima che turbini raffica d’Ares. Mugghia – marea in terraferma – l’armata. Tu afferra il rimedio più pronto alla crisi attuale. Per me, farò dei miei occhi scolta fidata anche al chiaro del sole. Dai miei scrupolosi messaggi saprai ogni fatto, là fuori, e non avrai colpi maligni. Il Corriere parte.
ETEOCLE
O Zeus, o Terra, e voi, dèi che cingete il paese; Potenza, travolgente Vendetta che il padre imprecò, Tebe, la mia Tebe almeno non strappatela via – arbusto divelto dal ceppo, desolata rovina, spoglie all’ostile ferocia – lei, le famiglie, le domestiche mura: lei, che irraggia, modula in greco la lingua! Libera patria, Stato figlio di Cadmo: stanghe schiave non li inchiodino mai! Fate scudo. Vi coinvolge il discorso, io spero: si sa, un paese, se ha buona fortuna, ripaga i Potenti.
Eteocle si avvia alle mura.
Si precipita senza ordine in scena il Coro di fanciulle tebane.
CORO
Ululo orrore, abisso d’angoscia:
dilaga l’armata. Straripa dal campo
marea vasta, fulminea di gente al galoppo.
La vedo! È spia quel volo di polvere in cielo:
non ha voce, ma parla sicuro, non mente.
La mia terra è preda di zoccoli cupi.
S’insinua il rombo, s’impenna, rugge:
un’acqua a schiantare la rupe, diresti,
trionfante. Dèi, oh, dee, sperdete
quest’alba di male.
Urlio varca la cinta.
Barbaglio di scudi. Il nemico si muove
schierato, ritma il passo su Tebe.
Chi farà scudo? Chi potrà arginare,
un dio, una dea? Che altro mi resta
se non adorare, prostrata, i Potenti?
O Maestà benedette,
culmina l’ora d’abbracciare le sante effigi.
Pianto su pianto: vano l’indugio.
Vi giunge o non vi giunge battito di scudi?
Se non oggi, quando intrecceremo suppliche
fatte di veli e ghirlande?
Ho negli occhi il tumulto: non è cozzo
di lancia solitaria!
Che decidi? Rinneghi, vecchio dio del paese,
o Ares, la tua Tebe?
O potente Elmo d’Oro, volgi gli occhi alla terra
che un tempo legasti al tuo affetto.
str. I
Celesti patroni di Tebe
apparite, guardate quest’ala di donne
che fa voti per non essere schiava.
Rigurgita, accerchia la cinta,
marea di eroi.
Spumeggiare di creste, ai soffi rabbiosi di Morte.
O cosmica Potenza, Zeus padre
sbarra senza spiragli
l’assalto predone.
E gli Argivi attanagliano
la fortezza di Cadmo: orrore,
lame nemiche! In bocca ai cavalli
le briglie battono ritmo omicida.
Sette eroi – gemme in mezzo all’armata –
corazze irte di picche, ai sette varchi
si schierano: ciascuno al suo posto fatale.
ant. I
Figlia di Zeus, Potenza che nel sangue
hai la lotta, fa’ barriera al paese
o Atena! E tu, o Santo, che cavalchi
e reggi l’abisso con l’arma che arpiona,
Posidone sciogli, sciogli noi dall’angoscia!
E tu, Ares, veglia sul borgo che ha Cadmo
nel nome: fa’ capire ch’è tuo, che l’ami!
Tu Cipride, radice materna del sangue
storna ogni male: da te
noi siamo sorti, e a te ricorriamo
col canto in cui vibra
il tuo nome divino.
E tu, dio del Lupo, fatti sterminatore del lupo
armato nemico…
E tu, figliuola di Leto, arma il tuo arco.
str. II
Fragore di ruote accerchia la rocca
lo sento! O Maestosa Era
ululavano i perni per lo sforzo degli assi:
Artemide mia
l’aria pulsa folle squarciata di dardi.
Che accadrà della patria? Che ne sarà?
Fin dove dio sospinge il limite estremo?
ant. II
Sassaiola bersaglia gli spalti, lassù:
o Apollo mio!
Rombo di piastre metalliche, ai varchi.
Esaudisci, tu che al cenno di Zeus
risolvi con fine solenne la guerra,
sul campo.
E tu, santa, benedetta Onca fuori le mura
salva il tuo sacrario dalle sette porte!
str. III
Dèi, dèe, cosmiche Forze
Potenze estreme
scolte ai baluardi della patria
non tradite il paese segnato dal ferro
all’armata che parla straniero.
Esaudite – come è santo e giusto –
queste donne in preghiera, con le palme protese.
ant. III
Oh mie Potenze divine
curvatevi su Tebe, salvatrici
splendete di luce d’amore.
Prendetevi a cuore il popolo devoto
e se il cuore vi spinge, lo porrete in salvo.
Fate mente, vi prego, ai riti solenni
in cui si consuma l’amore di Tebe.
Eteocle, tornato dalle mura, parla alle donne del Coro.
ETEOCLE
Voi, ascoltatemi – creature di disgusto – bell’eroismo il vostro, bella difesa per Tebe! Dà slancio ai guerrieri bloccati qua dentro il vostro aggrapparvi agli idoli santi, patroni di Tebe! E poi strida, schiamazzi: orrore, per chi ha equilibrio! No, no. Disgraziato – o felice e beato – io non faccio famiglia con questa carne di donna.
Se ha potere, scatta, non puoi viverle accanto; ma può prenderla il panico, ed è guaio più grave alla casa, allo Stato. Anche oggi. Questo vostro incrociarvi, fuggitive, sbandate, l’urlio che dilaga: è uno schianto nervoso per la gente di Tebe, l’ha annichilita. Per loro là fuori, invece, è un fior di favore: per noi uno sfacelo.
Colpa nostra, siamo noi la radice. Ecco i frutti, a spartire la vita con donne. Chi non vuol essere docile a questo potere che ho – femmina, maschio, creatura mediana – avrà contro regolare sentenza di morte. Niente paura: non sfugge al supplizio dei pubblici colpi di sasso. È terreno dell’uomo, l’esterno. Non ha peso la donna, non deve. Tu sta’ lì , tra le quattro pareti, non creare dei danni. M’hai sentito, o per nulla? Mi comprendi, se parlo?
CORO
str. I
Eteocle, quel rombo, quel rombo,
martellare di carri… l’ho in testa, incubo
cupo, sibilare di perni rotanti
di morsi ossessivi, barre piantate
tra i denti ai cavalli
briglie fucinate alla fiamma.
ETEOCLE
S’è mai visto il nostromo scovare rimedio che salva, sbandando su e giù per il ponte, con lo scafo spossato sull’abisso che bolle?
CORO
ant. I
Ma io venni di volo agli idoli antichi
dei Potenti. M’abbandonavo agli dèi: fuori,
tempestava le porte, ruggiva tormenta omicidia.
M’avventa il terrore, a supplicare i Beati:
spieghino salda barriera su Tebe.
ETEOCLE
«La cinta sia stagna ai colpi di picca»: questo implorate. Non starà dalla parte dei numi, la cosa. Certo, gli dèi della città s’eclissano, dopo la rotta: è noto.
CORO
str. II
No, mai! Finch’io duro, non dilegui
questa folla santa di dèi! No, vedere
Tebe preda di gente sbandata, soldatesche
avvolte da vampe assassine!
ETEOCLE
Attenta. Chiama pure gli dèi: ma ragiona, non smarrirti. Docilità è madre di Buona Fortuna, e sposa di Riparo: è
proverbio.
CORO
ant. II
È così . Ma vigore di Dio è abisso più fondo.
Spesso affondi. Non hai scampo.
Pena brutale. Sugli occhi,
ti stagna la nube. Ma Egli ti erge.
ETEOCLE
Cose da uomini, immolare, scrutare gli dèi nel rischio di guerra. A te tocca immoto silenzio, nel cerchio domestico.
CORO
str. III
Per mano celeste godiamo patria inviolata
contro la cinta ristagna la calca nemica.
Merita sdegno rabbioso il mio atto?
ETEOCLE
Non sarò io a sbarrarti il culto del mondo divino. Ma penso ai miei uomini. Per non spegnerli, dentro, devi placarli,
frenare il delirio d’angoscia.
CORO
ant. III
M’ha sorpreso sordo impasto di colpi.
Sgomento inquieto, ed eccomi all’ara sacra
alta su Tebe.
ETEOCLE
Può darsi sentiate di gente che muore, di carne squarciata. Non voglio da voi frenesie di dolore, d’ululati. Di questo si sfama la Guerra, di sangue vivo.
CORO
Eccoli, sento cavalli frementi.
ETEOCLE
Sentili pure. Ma non splenda, che senti.
CORO
Trema Tebe dal ceppo. L’attanagliano, pare!
ETEOCLE
Basto io, a fronteggiare gli eventi.
CORO
Tremo tutta. Rinforza il crepitare alle porte.
ETEOCLE
Sta’ zitta! Non vociare così , in mezzo a Tebe.
CORO
Santa schiera celeste, non rinnegare le mura!
ETEOCLE
Sprofonda! Non chiudi la bocca, non ti freni?
CORO
Dèi cittadini! Non voglio vivere serva.
ETEOCLE
Tu, osservi te stessa, me e Tebe al completo.
CORO
Zeus, che puoi tutto, avventa lo strale al nemico.
ETEOCLE
Zeus, che creatura ci affiancasti, la donna!
CORO
Disperata – non meno di voi, uomini – se uno stato rovina.
ETEOCLE
Ancora voci sinistre, avvinta agli dèi?
CORO
Panico preda la lingua. Mi sento svuotata.
ETEOCLE
Compi ciò che ti chiedo. Una cosa da nulla.
CORO
Puoi dirlo, fa’ presto. Saprò subito dirti!
ETEOCLE
Sta’ zitta, maledetta, sta’ zitta! Non abbattere i miei.
CORO
Sto zitta. Spartirò con voi tutti il patire fatale.
ETEOCLE
Ecco, così mi piace sentirti parlare. Non come prima. Ma non basta. Esci dal cerchio degli idoli, di’ la preghiera potente: «Dèi, siate con noi nella lotta!». Ora sai la preghiera che voglio. Tu giubila, inneggia al trionfo – note fauste, devote, culto greco d’acclamare la vittima sacra – conforto, alla cerchia dei nostri: dilegua così la paura dell’urto guerriero. A me, ora (Eteocle prega):
«Ai Celesti custodi della terra nativa, scorta al contado, al cuore di Tebe; agli sgorghi di Dirce, all’Ismeno scorrente: uditemi. Se l’evento è benigno, se Tebe verrà risparmiata, io faccio voto che noi insanguinando di vittime i sacri bracieri degli dèi, abbattendo tori agli dèi, ringrazieremo della rotta nemica, con queste mani voglio inghirlandare le sante pareti di prede, d’armature nemiche schiodate a colpi di picca».
Ecco, questo implora agli dèi, senza ebbrezza di pianto, senza raffiche d’urla cieche, incivili: non temere, non scamperesti meglio alla fine. A me, ora. Esco, schiero sei uomini – settimo Eteocle – ai sette varchi di cinta, urto di remi ai campioni rivali – nobile sfida! – prima che piombino qui corrieri stravolti, groviglio chiassoso di voci, a soffocarci d’ansia rovente, febbrile.
Eteocle parte.
CORO
str. I
Con tutto il cuore: ma non so placarmi,
dentro, dall’ansia. Assediano il cuore
gli incubi – vampa d’orrore –
della forza che stringe le mura,
quale colomba che palpita, muore
d’angoscia sui piccini che cova
davanti alle serpi
cancro del nido.
Laggiù, contro gli spalti
– blocco d’uomini, massa concorde –
marciano. Di me che sarà?
Di là – cerchio chiuso di colpi –
bersagliano Tebe
di sassate taglienti.
Rivolgiti ovunque, semenza divina
di Zeus, ma salva l’armata,
il sangue di Cadmo.
ant. I
C’è suolo al mondo, meglio del nostro,
o dèi, per trapiantarvi, se cedete al nemico
questo terreno, spesso e generoso
e l’acqua Dircea? Dà vita
più d’ogni sorgente
fluente da Posidone
che fascia la terra
e dalle Oceanine, figlie di Teti.
Provvedete, Santi custodi!
Incutete alla gente là fuori
la bassa paura: annulla
l’essere umano! E la frenesia
smarrita, armi che volano a terra!
Fate trionfare l’onore
del popolo vostro, o scudi di Tebe!
Radicatevi ai vostri sacrari
grazie allo stridulo coro di pianti!
str. II
No, no. Che pena: città millenaria
inabissata all’inferno, selvaggina
prostrata dal ferro, velo riarso
di cenere, degradante sfacelo
sotto pugno acheo, mosso da dio!
Ah, povere inermi razziate – giovani,
vecchie – per le ciocche annodate,
puledre, diresti: lacera
rovina di cenci. La città si dissangua,
impasto di grida. Il bottino vivente
s’avvia al suo strazio, in un gorgo di urla.
Trasalisco: il domani è una cappa di pena.
ant. II
E che nodo alla gola, se la castità giovinetta
prima che il rito ne colga l’acerba primizia
sarà sviata a nemiche dimore.
Anzi! Chi cade – fin d’ora lo dico –
ha fine più lieta di noi giovinette.
Purtroppo, come un popolo crolla,
la sua fine è grumo di aspro destino.
Qua e là si predano schiavi: chi massacra,
chi semina fiamme; sull’intero abitato
chiazza stagnante di fumo. Sui folli di paura
dall’alto alita Ares: snerva le genti
insozza la pia religione.
str. III
Ovunque violenza, nel borgo. Rete
ingabbia le torri. Armato per mano d’armato
sotto il ferro stramazza.
Mugolio palpitante di sangue
di piccoli al seno
caldo del latte materno.
Razzie, gente sbandata: è intimo intreccio.
Chi ha preda s’affianca a chi ha preda
chi è senza dà voce a chi è senza
per avere un aiuto alla caccia.
Cresce la brama: non s’accontenta.
Il pensiero precorre la fine di tutto.
ant. III
Rovina di frutti confusi, per terra:
fa soffrire quella,
che è casa di donne dolenti.
Impasto opaco, immenso
i doni della zolla
piombano in cieche fiumane.
Per le giovani schiave, nuove miserie…
…notte d’amore strappata col ferro
da un uomo che ha vinto, nemico
prepotente, timore che questo sarà rito
di nozze, strida, a suggello di pene colme di pianto.
SEMICORO
Ecco la scolta, donne, mi pare. Recherà fresco messaggio dal campo: avventa di volo trascinante rotare dei piedi.
SEMICORO
Ecco là il principe, il figlio di Edipo. Incastro perfetto, potrà udire il racconto del messo. Anche a lui, vedete, l’ansia
sregola il passo.
Da parti opposte, entrano Eteocle e il Corriere.
CORRIERE
So tutto. Fatemi dire le mosse nemiche, una per una, che schieramento hanno estratto, davanti alle porte.
Tideo è già lì , di fronte alla soglia di Preto. Rugge. Ma il veggente non lascia che varchi il guado d’Ismeno: non vengono belli i presagi di sangue! Delira Tideo, spasima, vuole lo scontro, si sgola: rettile, pare, che stride nel caldo del sole. Martella brutale sul chiaro veggente, sul figlio d’Oicleo: «Senza fegato, abbassa la coda davanti all’ora fatale, alla lotta perfino!».
Così lastra e scrolla tre creste, masse d’ombra, corona irsuta dell’elmo. Dallo scudo, nel cavo, trilli di bronzo battuto, scroscio che gela. Sullo scudo il marchio, lo stemma della sua arroganza. Eccolo: cielo metallico, incendio di stelle; in mezzo alla piastra raggia plenilunio terso, solenne, maestà astrale, gemma del buio notturno. È la sua frenesia, sotto armatura sdegnosa: e ulula, rasente l’orlo del fiume, irta passione di lotta. Un puledro, diresti che vibra, ansima contro le briglie, ha dentro lo scatto, teso al primo urlo di tromba. Che antagonista gli schieri? Chi dà pegno di saldo riparo alla porta di Preto, al cadere dei pali?
ETEOCLE
Fregio d’uomo nemico non può dare brivido, a me. Non possono farsi autori di squarci, i suoi marchi. Creste, scampanio: non azzannano senza la picca. E quel buio famoso là sopra lo scudo, balenare di stelle nell’aria… chissà, la demenza può farsi profeta, a qualcuno. Certo, se crolla e buio gli piomba sugli occhi, questo stemma troppo sdegnoso fa reale il suo nome, per lui che l’imbraccia. Retto castigo!
Io a Tideo contrappongo il bravo figliuolo di Astaco, campione a presidio del varco. È di ceppo purissimo. Non solo.
Per lui, Ritegno è sacro. Ne ha il culto. Ha orrore d’insolenze chiassose. È indifferente al male: non sa la bassezza. L’ha nel sangue. Il suo tronco affonda nella semina d’uomini, superstiti della rissa mortale. Sì , è genuino di questo suolo, Melanippo! L’esito è un volo di dadi: giudica Ares. Naturale Patto di sangue è l’intimo scatto imperioso, per lui, a sviare la punta nemica da questa Madre nativa.
CORO
str. I
Al mio combattente diano trionfo
gli dèi: è santo il suo ergersi
campione di Tebe! Ma io palpito:
vedere la pozza di sangue, la fine
di loro disfatti a difesa dei cari!
CORRIERE
Oh, certo, gli diano trionfo gli dèi!
Capaneo ha estratto l’urto contro porta Elettra. Pezzo d’uomo, anche lui. Schiaccia il primo, di cui t’ho parlato. Il suo cervello ribolle: non ha limiti al mondo. Grandina sfide ai torrioni. Non le faccia reali il futuro! Spianerà Tebe, sta urlando, con il consenso di dio. Anche senza! Né sdegno rabbioso di Zeus, rovinandogli innanzi, potrebbe bloccarlo.
Fulmini, scoppi di folgori, che sono per lui? Somigliano a folate d’afa, col sole a picco nel cielo. Imbraccia uno stemma: nudo uomo, armato di fiamma. Sciabola in pugno torcia lucente. Dalle labbra, tutta d’oro, una frase: «Tebe arderò». Che uomo. Schièragli… chi può resistergli? Chi argina, immoto, quel guerriero ululante?
ETEOCLE
Altro caso in cui da profitto, fresco profitto matura. Sì , nel mondo, la lingua denuncia franca il cieco pensare. Capaneo provoca, insiste, ha impulso teso all’azione. Il cielo non conta per lui. Allena le labbra a un giubilo vuoto. Ha dentro la morte ma inonda l’aria su fino a Zeus, col suo scroscio bollente di urla. Io ho fede che giustizia gli precipiti addosso la folgore armata di fiamma. Vediamo, se somiglia a calde folate di sole alto nel cielo!
Altro uomo è pronto per lui, già in armi. Lingua inerte ma, dentro, vulcanico scatto. È Polifonte, una forza: corazza che non tradirà. Dalla sua, a salvarlo, ha il sorriso d’Artemide e d’altri Celesti.
Continua. Chi è il destinato alla prossima porta?
CORO
ant. I
Morte, a chi impreca tremendo su Tebe.
Lama di saetta l’inchiodi
prima che s’avventi su me, a predarmi
dalle stanze di giovane donna
col ferro arrogante.
CORRIERE
[Bene.] Dirò [il prossimo estratto contro le porte]. A Eteclo, per terzo, toccò il terzo sorteggio dal cavo dell’elmo metallico: sferrare l’orda alla porta Nuova. Mulina puledre, già tutte brividi, scarti sotto le briglie, golose del volo, dello schianto alle porte. Fischiano, le musoliere, un’esotica aria, quando fa groppo la raffica dalle froge rabbiose. Sullo scudo lo stemma è di stile non basso: un guerriero pesante, piolo su piolo, scala il torrione nemico, goloso di preda. Anche dalle sue labbra un urlo, catena di segni intrecciati: «Neppure Ares mi sradica via dal bastione!». Anche contro di lui manda chi s’impegni a scrollare da Tebe le stanghe da schiavi.
ETEOCLE
[Ho l’uomo. Potrei dirgli subito: va’!] Ma ecco, è già in marcia. Nelle braccia ha la sua prepotenza, Megareo di Creonte, rigoglio fiorito dalla semina umana. Non lo fanno inquieto gli scoppi, le folate ossessive dei puledri, là fuori. Non farà un passo via dalla porta: o cadendo salda il suo conto alla Terra, che l’ha fatto uomo; o preda i due armati – con tutto il bastione, là sullo scudo – ghirlanda di spoglie nemiche alla casa paterna.
Va’ avanti. Sentiamo che altra bravata. Non risparmiare parole.
CORO
str. II
Invoco esito buono all’evento
– o mio campione di Tebe – al nemico sfacelo.
Svetta da gole nemiche l’insulto su Tebe.
Cervelli sconnessi. Zeus che castiga
scocchi su loro l’occhiata dell’odio.
CORRIERE
Il prossimo, quarto, occupa il varco seguente, di Atena Onca. Si fa sotto, tra scoppi di urla. È Ippomedonte. Una massa. Statuario, enorme. Mulinava la distesa di un’aia: lo scudo rotondo, vi dico. Io gelai! Basta, non più parole. Non era certo incisore mediocre chi plasmò per lo scudo la scena. Ecco Tifone, dalla gola che alita vampe sfoga caligine negra, sinuosa sorella del fuoco. Grumi di serpi costellano l’orlo, fanno solido blocco là dove s’incava lo scudo falcato, rotondo. «Morte!» ha ululato. Fanatico d’Ares, smania per l’orgia di guerra. Un ossesso, diresti. Paralizza, lo sguardo. Devi imbrigliare lo scatto di questo guerriero. Senti? Panico è là, davanti alla porta, e scaglia bravate.
ETEOCLE
Primo. Atena Onca ha sede qui nel sobborgo, porta a porta con Tebe. Odia lo squilibrato: gli sbarrerà la nidiata, come a un rettile freddo. Secondo: Iperbio, sangue buono, di Enopio, è campione eletto a misurarsi in duello con lui. È deciso a scrutare che parte gli tocca, nella stretta dell’ora fatale. Eroe senza macchia: né fuori, visibile, né intima, né come imbraccia le armi. Bella la scelta di Ermes, d’annodarli: un uomo sta per scontrarsi con l’uomo che odia. Nel cozzo di scudi, porteranno a lottare dèi antagonisti. Uno imbraccia Tifone che alita fiamma. A Iperbio Zeus padre troneggia immoto sull’arma. In pugno, ha lama di fuoco. E finora, occhio umano non ha scorto disfatta di Zeus! Così si spartisce l’affetto dei Potenti. Noi apparteniamo a chi trionfa, loro a chi cade. Per i rivali prevedo identica fine, se nel duello Zeus schiaccia Tifone. Parla chiaro lo stemma d’Iperbio: Zeus è con lui, sullo scudo, e lo salva. Così vuole il destino.
CORO
ant. II
Sì , sono serena: chi ha in mezzo allo scudo
– carne ingrata, inumana, terrigena –
il rivale di Zeus, sagoma odiosa
ai viventi, ai Potenti perenni,
avrà fronte spaccata nell’urto alla porta.
CORRIERE
Lo desidero tanto. Al racconto del quinto, ora, già in posizione d’attacco alla porta del Nord, ch’è la quinta. Là, sì , alla tomba d’Anfione, il figlio di Zeus. Giura sull’asta che stringe – è il suo dio, l’adora caparbio, più della luce degli occhi – che è sicuro, svuoterà l’abitato tebano: dovesse lottare con Zeus! Così tuona, bocciolo fiorito da una che ha il covo sui monti: splendida fronte, eroe intriso d’uomo e di bimbo. Da poco dilaga peluria sul volto – germoglio dell’età tenera – scura macchia di piuma nascente. Ma la mente è gelida, dura, non rispecchia il fanciullesco del nome.
Eccolo, che avanza: lo sguardo t’impietra. Certo, non è umile il modo con cui si pianta alla porta: in mezzo allo scudo martellato di bronzo – rotonda fortezza dell’uomo – imbracciava lo sfregio di Tebe, la Sfinge – carne viva, tra i denti – placca ingegnosa saldata con chiodi, disegno in rilievo, lucente. Schiaccia un corpo, un tebano: così quest’uomo diventa bersaglio favorito dei colpi. Non ha l’aria di uno venuto a spacciare due soldi di guerra: anzi, deciso a non disonorare una missione partita da tanto lontano, l’Arcade Partenopeo, Viso Fanciullo.
Che guerriero. Eppure, è un emigrante. Vuole saldare splendidamente il suo debito ad Argo, che gli ha offerto la vita. Che minacce, ai torrioni di Tebe: che dio non le faccia reali!
ETEOCLE
Ricada su loro il progetto! Concedilo, dio! Su loro, sugli sfoghi rabbiosi, sacrileghi! Che sfacelo, che abisso di male
sarebbe, a stroncarli! Anche per l’eroe che racconti, per quest’Arcade, è pronto un campione: uno senza bravate, ma il braccio vede bene il bersaglio. È Actor, fratello dell’altro che ho appena chiamato. Non vorrà che lingua sonante – senza sostanza di fatti – irrompa dentro la cinta, e moltiplichi i mali.
Non darà varco, da fuori all’interno di Tebe, all’armato che imbraccia l’emblema del mostro, peggiore nemico, sullo scudo nocivo. Sfogherà il suo livore, la Sfinge, su lui che l’imbraccia, quando all’ombra di Tebe subirà un crepitio di percosse. Se il Cielo è disposto, le mie sono parole reali.
CORO
str. III
Mi prende l’anima il tuo ragionare.
Pure, brivido irto mi scorre la treccia
se sento l’alto vociare d’alteri
sacrileghi eroi. Oh, dio
massacrali tutti sul suolo tebano!
CORRIERE
Il sesto ora vi narro. Campione di savio equilibrio, e fior di guerriero. Anfiarao profeta: una forza. È già in posizione: attacca le soglie Omoloidi. Intanto, bersaglia Tideo poderoso d’insulti pesanti: «Tu, assassino, guastatore della vita civile, artista geniale di mali per Argo, portavoce d’Erinni, braccio destro di Strage, strumento che ispira ad Adrasto i suoi mali di oggi!». Poi, rovesciando il nome di quel tuo fratello, Polinice, sì , il Millerisse, smembrando il nome lo chiama.
Sulle labbra, spiccano gravi parole: «Bravo, bel gesto! Benedetto da dio! Che onore, questa storia, tra le genti future, tu che strazi la terra dei vecchi, gli dèi del paese, con l’urto di forze raccolte da fuori! È qui la tua fonte nativa: e non c’è ritorsione, per cui sia giusto seccarla! Credi che se inchiodi la terra paterna ai colpi del ferro febbrile, sia lieta, poi, di schierarsi al tuo fianco? Io sono pronto. Concimerò questa zolla, profeta avvolto nel cavo di zolla nemica.
Battiamoci. Non sarà senza luce la fine. È fatale, lo sento». Questo predicava il veggente, e imbracciava quieto lo scudo, una massa di bronzo: sul disco non spiccava figura. Ha un proposito, infatti: non parere, ma essere il primo! Fa fruttare il solco intimo, dritto, del savio pensiero: vi germogliano probe scelte di vita. Perciò attento. Manda contro quest’uomo una ciurma di gente che vale, di braccio e di testa: è tremendo, chi ha religione.
ETEOCLE
Guai! Che fatalità fa incrociare la strada di un giusto coi peggiori sacrileghi! In ogni vicenda, nulla è peggiore di pessimi soci: meglio non coglierne i frutti. Maggese di Perdizione frutta morte. Capita: un uomo, un buono, sale a bordo in mezzo a una ciurma riarsa dalla febbre del male. È finita, rovina con loro, ceppo segnato da dio.
O un altro, un probo che viva in un paese incivile, scontroso, dove dio è sconosciuto: è fatale, finisce irretito nella stessa gabbia, in ginocchio, trafitto dall’equa, indifferente sferza divina.
Parlo anche per lui, per il figlio d’Oicleo, il veggente: equilibrato, probo, eroico, religioso. Un maestro, nel dire il futuro.
Eccolo – è violenza morale, per lui – invischiato in un gruppo di empi, di lingue arroganti, già avviati a una meta troppo lontana, che non ha ritorno: se è volere divino, franerà con loro, nello stesso sfacelo. Ho un’idea: non urterà neanche i battenti. Oh, non pensiate per poco coraggio, per fiacco slancio. Ma sa che è segnato, che questo scontro sarà la sua fine, se il presagio d’Apollo fiorisce. [E Apollo o tace, o parla giusto: l’ha nel sangue.]
Non importa. Schieriamogli contro un nobile eroe, Lastene, una forza: guardiano scontroso, incivile! Stagionato cervello, ma addosso una primavera di carne. Sguardo corridore. Nel pugno, il suo ferro non è pigro a colpire là dove scudo non copre. Dio, solo dio regala ai viventi il trionfo.
CORO
ant. III
Sentiteci, dèi! Maturate le sante
suppliche nostre. Tebe trionfi!
Sviate lo strazio tagliente
sui nostri aggressori al di là della cinta.
Zeus li saetti, li folgori a morte.
CORRIERE
Ecco il settimo, alla settima porta. Sono pronto a ridire – sì , è lui, tuo fratello – che casi maligni bestemmia, impreca su Tebe: prima calpesta le torri, si fa proclamare campione, riversa sui vinti il suo inno frenetico, poi t’incrocia, t’ammazza e ti crolla vicino. Se scampi, castiga in te il suo usurpatore: scambio d’identica pena, l’esilio randagio, fuggiasco. È il suo proclama.
Chiama per nome gli dèi familiari della terra nativa – che tengano fisso lo sguardo al suo supplicare – Polinice potente. Regge scudo di fresca fusione, un disco perfetto: sopra, placca ingegnosa, un duplice stemma. Ecco, uomo d’oro sbalzato, uomo di guerra, all’aspetto. Lo conduce un’effigie di donna: è composta, conosce la strada. Dice che è lei, proprio lei, la Giustizia. L’incisione l’afferma: «Sarò io a rimpatriare quest’uomo: riavrà una vita civile, girerà da padrone tra le mura native».
Tutte qui le malizie di quelli là fuori. Ora a te: sappi chi ti par bene schierare alle porte. Di me non potrai lamentarti, son certo, di come t’ho riferito. Ora a te. Pensa tu a guidare lo Stato al suo porto. Il Corriere esce.
ETEOCLE
O sangue indemoniato, carico d’odio divino, o universo di lacrime, o sangue mio che vieni da Edipo! Aaah, è il tempo: matura l’imprecazione del padre! No, no. Né singhiozzi, né chiasso. Non è dignitoso. Che non dilaghi poi il piagnisteo: non potrei sopportarlo. Per chi è specchio vero del nome – a Polinice, alludo – presto sapremo fin dove dà frutto il suo stemma, se saprà rimpatriarlo quella scritta d’oro fuso in mezzo alla piastra, sciocco profluvio d’un cervello sbandato.
Se Giustizia – figliola immacolata di Zeus – gli stesse vicina, mentre pensa o agisce, certo questo potrebbe accadere. Ma non è così . Da quando fu espulso dal buio cavo materno, poi nel tempo delle cure infantili, adolescente, e al primo addensarsi di peluria sul viso Giustizia mai gli ha rivolto uno sguardo, un segno di stima. Non gli farà da fedele scudiera in quest’ora, nello sfacelo del suolo paterno! Non credo, non posso. Sarebbe l’esatta smentita al suo nome, Giustizia, alleata a un essere che in corpo ha insolenza pura.
Tutto ciò mi dà forza serena. Vado allo scontro: sì , io solo. E chi avrebbe più giusto motivo? Da principe a principe, fratello a fratello, nemico contro nemico: l’affronterò immoto. Forza, cominciamo: qua i gambali, baluardi ai colpi di lama e di sasso.
CORO
No, mio principe, no, figlio di Edipo! Non ridurti, nel tuo slancio brutale, pari a quell’altro, che urla follie. Guerrieri Cadmei si battono contro gli Argivi. È sufficiente. Si lava, quel sangue. Ma nodo suicida di morte tra due dello stesso
sangue… non, non è chiazza che possa appassire.
ETEOCLE
Puoi subire una fine violenta, ma senza ignominia. E sta bene: è l’unico pregio che vale, tra i morti. Ma patire col male l’infamia non puoi dire sia fonte di gloria.
CORO
str. I
Che febbre la tua, povero figlio? Scatto cieco
dilagante, pazzo di sangue, non possa predarti!
Strappati il seme di sinistra passione.
ETEOCLE
Incalza i miei casi – bufera di colpi – un dio. Dunque, veleggi al gorgo infernale, sul filo del vento, tutto il ceppo di Laio. È Destino: ha addosso l’odio di Apollo.
CORO
ant. I
Azzanna nel vivo, t’aizza lo spasimo
d’immolare un essere umano: rito di sangue
sacrilego, che frutta tormento.
ETEOCLE
L’ostica Voce Imprecante… di mio padre – occhi riarsi, che non sanno il pianto -, mi attacca, mi spiega il vantaggio di una rapida fine, su una fine più tarda.
CORO
str. II
Tu almeno non farla più svelta. Non passerai
per abietto, se hai il bene di vivere.
Vendetta ammantata di buio lascia le mura,
se all’offerta devota sorridono, infine, gli dèi.
ETEOCLE
Dèi, dèi! Devi dirlo? Da un pezzo non contiamo più nulla, per loro. Un dono solo salutano in festa, da noi: ch’io perisca. Ha senso, vezzeggiare la mia funebre fatalità?
CORRIERE
ant. II
Ora, almeno: t’è tanto vicina! Ma se, lenta
Maledizione svia il suo corso, può toccarti
con più soave spirare. Oggi ribolle.
ETEOCLE
Ah, ferve, trabocca l’imprecazione di Edipo. Davvero sincere le fantasie degli incubi, nel sonno, quello spartirsi l’eredità del padre…
CORO
Esaudisci noi donne. Non importa, se t’è atto sgradito.
ETEOCLE
Di’ proposta concreta. Farla lunga non serve.
CORO
No, non tu! Non andare laggiù, alla settima porta!
ETEOCLE
Ho la tempra del ferro. Non mi smussi, parlando.
CORO
Anche una vittoria opaca ha stima, dal cielo.
ETEOCLE
A un uomo di guerra non piace questo tuo dire.
CORO
Dunque hai deciso, falcerai identico sangue fraterno.
ETEOCLE
Dio ti regala sfacelo: assurdo schivarlo. Eteocle esce.
CORO
str. I
Tremo tutta. M’agghiaccia la dea
– cancro in famiglia, di dea
non ho nulla, veggente sinistra, sincera
Rissa imprecata per bocca di padre –
oh, non maturi la maledica vampa
d’Edipo demente.
Preme l’Erinni, la Rissa, sfascio del ceppo.
ant. I
Un forestiero assegna agli eredi
le quote. Calibo, emigrante scita
scalco affilato di beni
e sostanze: l’acciaio dalla fredda tempra!
Ha già fatto le parti: a ciascuno, di terra
– per starci – quanta ne abbraccia la salma.
Tutti gli altri possessi svaniti.
str. II
Dopo morte suicida
– incrocio di squarci –
e che la zolla sorbisca
cupa chiazza di sangue mortale
chi ha in serbo il rito che lava,
che cancella? O penoso
intrico di strazi, a palazzo,
d’antichi e di freschi!
ant. II
Parlo della trasgressione antica
punita di volo
– s’abbarbica al terzo ciclo di vite –
quando Laio – Apollo era contro,
profetando tre volte da Pito,
dal cuore del mondo, che solo
una fine senza germogli
salvava lo Stato –
str. III
Laio cedette all’intima brama
smarrita, creò la sua fine fatale
Edipo omicida di padre.
E lui – scatto dolente – piantò nella zolla
solenne materna – suo nido di vita –
seme, ceppo cruento: frenesia
che annienta il sentire
li saldava nel letto d’amore.
ant. III
È un abisso. Risacca di mali
c’inonda. Flutto che piomba. Eccolo, svetta
il seguente, culmina in tre, e rigurgita
alla fiancate di Tebe.
In mezzo si stende
– breve spessore a difesa – l’arco d’un muro.
Ho paura. A fianco dei principi
potrebbe cadere in ginocchio lo Stato.
str. IV
Maturano ormai – peso che schiaccia –
gli epiloghi delle imprecazioni antiche.
La rovina sfiora la miseria e passa:
ma l’abbondanza spessa, carnosa,
d’uomini incontentabili
produce lanci di zavorra, dal ponte.
ant. IV
A che uomo sorrisero tanto
dèi e gente della casa…
e la piazza gremita di folla
da eguagliare le feste a Edipo
quando abolì dal paese
quel demonio vorace di carne?
str. V
Ma quando il disperato
aprì gli occhi sulle nozze
oscene, lo torceva lo strazio.
Spasimava la mente
e maturò due crimini orrendi:
di suo pugno – grondava di sangue
paterno – arretrò sbandando dagli occhi
più preziosi dei figli;
ant. V
e schiumante per la miseria
di quella mensa, folgorò sui suoi figli
maledette voci. Squarciava, la lingua!
«Giorno verrà, che col ferro nel pugno
a spartire, s’assegneranno i beni».
Ecco il mio brivido, ora:
oh, non le faccia mature
la Rissa, l’Erinni che spezza le gambe.
Rientra il Corriere
CORRIERE
Fatevi forti, figliole, ancora avvolte dal calore materno. Tebe nostra è salva: via il collare da schiava! Crollò la folata arrogante di guerrieri nervosi. Tebe naviga in pace. Tra gli schiaffi dell’abisso agitato, non stivò acqua la chiglia. Fa scudo la cinta. Sbarrammo i varchi, campione contro campione: nel duello non delusero, i nostri! L’esito è buono, in complesso, alle prime sei porte. La settima fu scelta esclusiva del santo Principe, Patrono del Sette, di Apollo: così concretava – rovina al ceppo di Edipo – il delirio antico di Laio.
CORO
Che colpo improvviso s’è aggiunto alla nostra Tebe?
CORRIERE
Morti, gli eroi, scambio di colpi omicidi.
CORRIERE
Quali? Che hai detto? Deliro, all’orrenda notizia.
CORRIERE
Ascolta, non delirare: il frutto d’Edipo…
CORO
Oh, già soffro, indovino dolori.
CORRIERE
Non brancolare. Riversi per terra…
CORRIERE
Sul campo, caduti? Peso che schiaccia. Non importa. Racconta.
CORRIERE
Così s’abbatterono. Fratellanza eccessiva di mani assassine. Tebe è sicura, ma la Terra s’imbeve del sangue dei principi fratelli. Reciproco assassinio. Così maledetto destino li strinse in un nodo. Sì , destino disperde quel sangue sinistro. Sono eventi degni di festa, e insieme di pianto. Ecco, Tebe trionfa: ma i principi, coppia di capi guerrieri, si sono spartiti la massa di beni con l’acciaio di Scizia, temprato dal maglio. Di terra, ne avranno quanta ne copre la tomba. Sull’onda dell’imprecare paterno, raffica torva, maligna. Il Corriere parte.
CORRIERE
Zeus maestoso; Potenze
baluardi di Tebe, che gli spalti di Cadmo
… tutelare.
Non so: giubilo, inneggio
al Salvatore che fa intatto il paese,
o canto la nenia ai capi guerrieri
desolati, sinistri, senza affetto di figli?
Specchi perfetti del nome
in mezzo a «mille risse»
caddero: e fu sacrilego intento.
str. I
Cupa, fruttifera Voce maledica
d’Edipo al suo sangue:
freddo di morte mi cade sul cuore.
Ordisco sul tumulo un’aria
di nenia ossessiva, ora che so
la morte disperata, le salme,
gli sgorghi cruenti. Macabro aleggia,
presago, il nodo sonoro dei colpi.
ant. I
Culmina, non s’è smentita
la maledica Voce paterna.
Varcano il tempo le indocili voglie di Laio.
Cerchio di strazio su Tebe.
Non si smussa parola di dio.
Entra lento un corteo guerriero. A spalle i due principi morti. Dietro, Antigone e Ismene.
Eccoli, piangeteli forte! Crimine
assurdo, il vostro! Strazi pieni di pianto, ormai,
reali, non a parole.
Tutto traspare: spicca la notizia del messo.
Nodo d’angoscia a vedersi, morte gemella.
Scambio suicida di colpi. Definite
due quote di lutto. C’è altro, da dire?
No. Solo che in cuore alla casa s’ammucchia
male su male.
Amiche. Ritmate alla brezza del pianto
i pugni alle tempie: impulso battente di remi
che ogni volta traghetta di là d’Acheronte
desolata, morta crociera, macchia buia
che scivola a lande ignote ad Apollo, a notte perenne
all’opaco albergo del mondo.
Ma ora scorgo Antigone e Ismene.
Vengono allo straziante ufficio, al lutto
sui corpi fraterni. Io penso
che dal profondo dei seni
colmi d’amore, autentico strazio
sprigioneranno. Ne hanno diritto.
È rito che noi precediamo il cordoglio
con l’ululo sordo ch’esalta l’Erinni
con l’inno atroce trionfale di morte.
A voi toccarono i più maledetti fratelli,
a voi, tra quante s’allacciano in vita la fascia.
Io spasimo, gemo. Non frodo:
sgorga dritto dal cuore il mio urlo.
Echeggia il compianto funebre.
str. I
– Misere menti distorte
diffidaste dei vostri, insensibili ai colpi
all’assalto col ferro dei beni paterni.
Disperati!
– Sì disperati, che disperato morire
incrociarono, infangando le case.
ant. I
– Aaah, sradicaste domestiche mura
esperti di quanto sia duro il potere
di re. Ormai con l’acciaio
scioglieste la rissa.
– Voci troppo sincere d’Edipo:
le ha fatte reali la ferrea Erinni.
str. II
– A sinistra
squarciati
certo squarciati, al fianco
nato dallo stesso seno
……….
Ah segnati da Dio
ah, gli auguri di morte si fanno
scambio di strage.
– Piaga, tu dici, che inchioda squarciando
carne e domestiche mura
ferocia che non ha parole
spaccatura devastante, fatale
per la parola maledetta d’un padre.
ant. II
– Singhiozzi traffiggono
da un capo all’altro il paese.
Singhiozza la cinta, singhiozza la piana
colma di vita. Saranno eredità
di gente future i domini, radice
rovinosa di Rissa,
della sua soluzione mortale.
– Con acre intento spartirono
tutto: che le quote fossero eque.
Al mediatore non risparmiarono
astio i più intimi cari dei due:
non ha tenerezze, Ares!
str. III
– È il loro stato: scavati dal ferro.
E scavati dal ferro son pronti per loro
– chi? qualcuno può dire –
due posti nella fossa paterna!
– Echeggia domestica nenia
accompagna i due
devastante, querulo dolente
curvarsi gemendo su sé!
E disperato, franco grondare di pianto
dall’intimo mio. Mi stempero
lacrimando sulla coppia regale.
ant. III
– Riconosciamolo: grave tormento
inflissero, lui alla sua gente tebana,
lui alle schiere addensate da fuori
massacrate sul filo del ferro.
– Ah, segnata da dio, chi diede la vita
più d’ogni donna
che si fregi del nome di madre.
Proprio suo figlio fece suo uomo!
Questi ne ebbe, questi due:
si scambiarono morte le mani
fiorite dallo stesso sangue.
str. IV
– Stessa semenza. Intreccio perfetto di morte.
Dilaniarsi rabbioso, frenesia di lotta
nel coronarsi dell’odio.
– È caduto il rancore. In terra
rivoli mortali: amalgama
di vita. Ora, vale il vincolo del sangue!
Tagliente è il piacere dell’odio,
forestiero marino, sorto da rigoglio
di fiamma, l’acciaio affilato. Tagliente
lo scalco maligno dei beni,
Ares: fa vera, la malèdica Voce paterna!
ant. IV
– Disperati! L’hanno avuta
la quota fatale di pena: dono del Cielo!
Cadaveri, coprono spazio
dominio senza fondo di terra.
– Ah, florido diadema di strazi
intrecciate alla casa! Ormai è la fine:
Maledizione ululò la sua stridula aria
sul ceppo schiantato, disfatto.
Erto, immoto ai varchi di Tebe
– là lo scambio di colpi – il trofeo
di Cieca Colpa. Al doppio trionfo
sinistra Potenza posò.
ANTIGONE
Ferito feristi
ISMENE
Tu dando la morte cadesti.
ANTIGONE
Di picca uccidesti.
ISMENE
Di picca cadesti.
ANTIGONE
Tu, tormentatore.
ISMENE
Tu, tormentato.
ANTIGONE
Riverso…
ISMENE
… data la morte.
ANTIGONE
Gemito, scorri.
ISMENE
Pianto, scorri.
ANTIGONE
str. I
Aaah!
ISMENE
Aaah!
ANTIGONE
Spasimo, dentro, di lutto.
ISMENE
In petto lacrima il cuore.
ANTIGONE
Meriti immenso pianto, tu.
ISMENE
Tu anche, strazio immenso.
ANTIGONE
Annientato da uno dei tuoi.
ISMENE
E uno dei tuoi uccidesti.
ANTIGONE
Doppio compianto.
ISMENE
Doppio incubo.
ANTIGONE
Eccoci, affiancate al tormento…
ISMENE
… noi sorelle accanto ai fratelli.
CORO
Fatalità disperata, che schianti col male.
Troneggi, o spettro d’Edipo!
Cupa Vendetta, puoi tutto.
ant. I
– Aaah! – aah!
strazio, cui rilutta, lo sguardo
… reduce d’esilio, a me
non rientrò prima uccise
scampato emise l’ultimo fiato
– ultimo fiato. – e l’altro trucidò
– misero ceppo. – che visse miserie
– angoscia dolente racchiusa in un nome
– impasto devastante di pene
CORO
Fatalità disperata, che schianti col male.
Troneggi, o spettro d’Edipo!
Cupa vendetta, puoi tutto.
ANTIGONE
Ne hai passate, tu. Sei esperto.
ISMENE
Tu non fosti più tardo, a imparare.
ANTIGONE
Da quando ritornasti in Tebe…
ISMENE
… a speronarlo, a colpi di picca.
ANTIGONE
Storia di morte.
ISMENE
Visione di morte.
ANTIGONE
Aaah, strazio!
ISMENE
Aaah, sofferenze!
ANTIGONE
Per la famiglia.
ISMENE
Per la terra.
ANTIGONE
Per me, per me. Io sono la prima.
ISMENE
Anche per me.
ANTIGONE
Principe di sinistri mali,
…
ISMENE
…
Eteocle capo.
ANTIGONE
Tu meriti il pianto. Più di tutti.
ISMENE
Indemoniati da Cieco Errore.
ANTIGONE
In che spazio di terra potremo deporli?
ISMENE
Nel più sacro e prezioso.
ANTIGONE
Lutto che a fianco del padre riposa. Il corteo esce.
Entra un Banditore
BANDITORE
Io devo intimare gli editti e i pareri del Consiglio che regge lo Stato cadmeo. Ecco il bando: Eteocle, che amò la sua terra, calerà nella fossa con le esequie dovute ai più cari. S’oppose ai nemici e scelse la morte sul suolo nativo. Fu devoto alla religione dei vecchi. Senza macchia, cadde nel punto in cui morte è splendore agli uomini in fiore.
Così mi hanno ingiunto di dire, sul conto d’Eteocle. Suo fratello, questa carne morta di Polinice, sarà scagliato là fuori. Senza fossa, strazio di cagne.
Lo merita: sconvolgeva il paese di Cadmo, se un dio, bloccandolo, non gli inchiodava la picca. Anche caduto, conserva per sempre la chiazza del crimine contro i numi nativi: nel suo sacrilegio, sferrava l’armata raccolta da fuori, e tentava la presa di Tebe. Quindi la decisione è che stormi d’uccelli, a folate, siano fossa a quest’uomo. Sconti, nella degradazione, il giusto grado di pena. Non abbia il conforto d’un pugno di terra, funebre mucchio, né il rito dell’urlo, modulato, tagliente. Degradato, senza onoranze dei suoi. Così è il decreto del governo cadmeo.
ANTIGONE
Io ai potenti di Tebe rispondo: se pure nessuno è disposto, con me, a scavargli una fossa, io lo farò sfiderò questo rischio d’inumare il fratello. Non ho pudore di rompere il patto, rivoltarmi allo Stato. Nodo enorme la vita dallo stesso ventre, da madre afflitta, da padre sinistro. Oh, mio cuore, osa: spartisci la rovina con lui che non ha più volontà.
Da viva a morto, con fraterno sentire. Non sfamerà mai la sua carne gole abissali di lupi. Non fateci conto. Tumulo, funebre fossa per lui: scoverò io, come fare. Sono donna, che importa? Userò il lembo del peplo di velo.
Sono sola, ma l’avvolgerò. Nessuno s’aspetti smentite. L’ardire avrà dalla sua espediente efficace.
BANDITORE
T’avverto. Non tentare assalti allo Stato.
ANTIGONE
T’avverto. Non impormi bandi superflui.
BANDITORE
Bada. È rude uno Stato sfuggito a sfacelo.
ANTIGONE
Rude, rude, ripetilo. Ma lui non sta più senza fossa.
BANDITORE
Uno che incarna l’odio di tutti, tu lo fregi di tomba?
ANTIGONE
Il suo caso non è ancora deciso dal giudizio divino.
BANDITORE
Non lo era, sinché precipitò nel rischio il paese.
ANTIGONE
Patì offesa, con offesa rispose.
BANDITORE
Fu per tutti il colpo che spettava a uno solo.
ANTIGONE
…
BANDITORE
Ultima dea, la Rissa, tronca i diverbi.
ANTIGONE
Farò la fossa a quest’uomo. Tu sii breve.
BANDITORE
Come vuoi. Io devo dirti «non farlo».
CORRIERE
Aaah, aaah
Imperiose, cancro del sangue
Vendette Funeree, il tronco d’Edipo
abbatteste dal ceppo.
Che devo patire? Che decido? Che scelgo?
Come oserò di negarti la nenia,
di non farti corteo alla tomba?
Ma ho panico, dentro. Mi torce
il terrore dello Stato tebano.
A te almeno, toccheranno
lugubri singhiozzi. Ma lui, disperato, in silenzio
col gemito solo d’una sorella
dovrà avviarsi. Chi si piegherà al comando?
SEMICORO
Lo Stato può agire o non agire
contro chi geme Polinice morto.
Noi ci muoviamo. Saremo, lì , alla fossa.
Faremo ala alla salma.
Questo lutto ci avvolge tutti, qui a Tebe.
Solo, lo Stato impone varia giustizia
a seconda dei casi.
SEMICORO
Noi no. Noi siamo con lui. Come lo Stato
e come il diritto comanda.
Sì – dopo i Celesti, e il trono di Zeus –
quest’uomo strappò dall’abisso
il paese di Tebe: l’avrebbe inondato
marea forestiera d’armati.
Senza riparo.
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