20121020 carrozzinaverona 1 - Il progetto disMappa

Perché disabili



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Si utilizzerà il termine disabili, aggettivo diventato ormai sostantivo, a riassumere il più preciso e rispettoso persona con disabilità, preferendolo a “diversamente abili”, applicabile a ogni essere umano nella sua unicità.
Non ultimo il vantaggio di poter cercare più efficacemente nei siti o motori di ricerca con una sola parola.

Questo blog è realizzato da e per persone con disabilità motoria e non, da un’idea di Nicoletta Ferrari, anche curatrice dei contenuti (testi e foto) e diretta verificatrice degli stessi in loco, nonché su sedia a rotelle.

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2 diversi da chi ?

Disabilità, handicap, menomazione… le parole da usare:

Perché dire «diversamente abili» fa trendy ma è una presa in giro

fonte

Suona molto politically correct. La nostra vita però resta un disastro: marciapiedi inagibili, niente lavoro, barriere e zero sesso. Chiamateci «disabili»: è più onesto. Fino a quando troveremo una parola migliore.

Adriana Belotti e Sara Moscogiuri, le prime ospiti che Casa disMappa di Verona ha avuto il piacere di ospitare esattamente a un mese dall'apertura, testimoni di accessibilità e testimonial della prima stanza dedicata esclusivamente ai turisti che si muovono in sedia a rotelle.Una volta ci chiamavano handicappati, poi disabili. Ora è diventato di moda dire che siamo «diversamente abili». La terminologia usata a livello di senso comune per riferirsi alle persone con disabilità nasce quasi sempre dal linguaggio utilizzato in campo scientifico, che poi ha delle ricadute anche sul modo in cui socio-culturalmente e politicamente viene “costruito” il costrutto di disabilità.

UNA «CONDIZIONE DI SVANTAGGIO». Nella prima Classificazione internazionale delle menomazioni, disabilità e handicap (Icdh), con il termine “handicap” si definiva «una condizione di svantaggio (causata dal contesto, ndr) vissuta da un soggetto in conseguenza a una menomazione o a una disabilità che limita o impedisce la possibilità di ricoprire il ruolo normalmente proprio a quella persona (in base a età, sesso, fattori culturali e sociali…)».

«HANDICAPPATO» È DISPREGIATIVO. Questa parola in realtà non mi è mai piaciuta. Forse perché la gente “della strada” l’ha sempre usata in senso dispregiativo, forse perché mi ricorda l’unica circostanza in cui, da ragazzina, durante un centro ricreativo estivo, sono stata presa in giro dai miei coetanei che si rivolgevano a me chiamandomi «handicappata». Istintivamente, quando la sento, mi fa venire un nodo allo stomaco.

Diversamente (abile) da cosa? Da chi? Insomma, anche qui si sente puzza di un confronto con la normalità normativa

È un termine obsoleto, sebbene, ahimé, a oggi tuttora presente in alcuni dei più importanti testi di legge in materia di disabilità, vedi la legge 104/94. È figlio del modello medico, così come la parola «menomazione», ossia «una qualsiasi perdita o anomalia a carico di strutture o funzioni psicologiche, fisiologiche, anatomiche» (alcuni psicologi, parlando dei disabili, dicono ancora «persone con menomazione», come se l’elemento caratterizzante le persone fosse proprio ciò che a loro manca. Da film horror, in pratica).

GLI ITALIANI SI RIEMPIONO LA BOCCA. Sentir dire «diversamente abile», invece, mi fa proprio incazzare. Non so chi l’abbia inventato, sicuramente non proviene dal campo scientifico, ma è molto trendy ultimamente. Suona tanto politically correct e viene usato a destra e manca, superando il prezzemolo nella classifica degli ingredienti più usati dagli italiani.

LA COSCIENZA DORME SONNI TRANQUILLI. Innanzitutto viene spontaneo chiedersi: diversamente (abile) da cosa? Da chi? Insomma, anche qui si sente puzza di un confronto con la normalità normativa. Ma soprattutto, mentre la coscienza collettiva dorme sonni tranquilli, avendo trovato queste due paroline all’avanguardia, io intanto rischio la vita quotidianamente guidando la mia carrozzina elettrica su marciapiedi sconnessi o occupati da automobili, non trovo lavoro perché i miei ritmi non sono considerati compatibili con quelli della produzione, non ho accesso a svariati luoghi a causa della presenza di barriere architettoniche, non ho una vita sessuale attiva da una vita… e così via.

Insomma, o le cosiddette «diverse abilità» vengono riconosciute e valorizzate dalla maggioranza in un modo “differente” da ciò che mi aspetto e quindi da me irriconoscibile o sinceramente tutto questo riempirsi la bocca parlando di persone diversamente abili mi sembra una gran presa… per i fondelli.

LA PATOLOGIA PRIMA DELLA PERSONA. Sono convinta che il linguaggio sia uno strumento importante quando il suo utilizzo ha delle ricadute concrete e tangibili nella vita delle persone. Di fatto si potrebbe affermare: «Linguaggio che usi, realtà che generi». La cultura dell’handicap e della menomazione, per esempio, si è concretizzata nella politica dell’istituzionalizzazione e in una società che, a tutti i livelli, vedeva nel disabile non la persona ma la sua patologia, agendo poi di conseguenza.

SOLO IL 19,7% DI NOI HA UN LAVORO. Allo stesso modo, da una società che parla di «diversabilità» io mi aspetterei, per dirne una, l’eliminazione della pensione d’invalidità per sopraggiunta inutilità della stessa, a causa di un’impennata nella percentuale di assunzioni di disabili sul lavoro. Invece solo il 19,7%, quindi una persona su cinque, lavora, mentre l’80,3% no. (Vita, 2015).

In un mondo così, le persone con disabilità dovrebbero condurre una vita sessuale attiva e soddisfacente, invece, non so gli altri, ma io sono più casta di una monaca di clausura. E da ultimo, se davvero le città fossero a misura di diversamente abili, dovrebbe essere garantito a tutti l’accesso in qualsiasi luogo.

NIENTE CULTURA DELL’ACCESSIBILITÀ. Siamo un po’ messi così, insomma, e di esempi che illustrino come, per lo meno in Italia, si sia ben lontani dal promuovere una cultura dell’accessibilità in tutte le dimensioni della vita, che valorizzi le differenze individuali e permetta loro di esprimersi al massimo, ce ne sarebbero a bizzeffe.

PIÙ ONESTO USARE ALTRI TERMINI. Ecco perché mi sembra più onesto parlare di «disabilità», cioè la condizione di coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri». (Treccani)

Io sono una persona disabile o con disabilità motoria perché è vero che alcune delle mie caratteristiche fisiche (il fatto di non essere in grado di coordinare i movimenti degli arti, per esempio) unite alla presenza delle barriere architettoniche fisiche e culturali presenti a livello sociale, a volte limitano o impediscono la mia possibilità di accesso a esperienze di vario tipo.

METTIAMO L’ACCENTO SULLE RISORSE. Poi, se volessimo trovare il pelo nell’uovo, potremmo notare che anche la definizione di disabilità, ponendo l’accento più sui “limiti” della persona (uniti a quelli del contesto) che sulle sue risorse, sarebbe quantomeno migliorabile. Ma per ora questo è il meglio che ci offre la lingua italiana. Almeno fino a quando qualcuno non si inventerà una parola più adeguata. Volete provarci voi?


Parlare di disabilità: quali sono le parole corrette da usare

Quali sono i termini corretti da usare quando si parla di disabilità? Chiariamo una volta per tutte cosa è giusto e cosa è sbagliato dire quando ci relazioniamo alla disabilità, perché le parole sono importanti e usarle nel modo corretto contribuisce alla costruzione di una società più inclusiva.

 di Iacopo Melio (fonte)

Iacopo Melio a Casa disMappa per la conferenza stampa del festival Non c'è differenza“Disabile”, “Handicappato”, “Invalido”, “Inabile”, “Diversamente abile”… Capita spesso che le persone si sentano in difficoltà e mi chiedano quali parole si possano usare riguardo la disabilità e quali invece no, per evitare di offendere, infastidire o più semplicemente fare brutte figure. C’è chi si rintana nel politically correct per sentirsi al sicuro, e chi invece scade in quel pietismo e buonismo che di positivo non hanno niente: in entrambi i casi la disabilità viene trasmessa in modo negativo, alimentando stereotipi e pregiudizi ma anche sminuendo la dignità e il valore della persona stessa, anziché abbattere barriere sociali e culturali. Ho deciso allora, dopo una ricerca approfondita, di scrivere questo articolo (bello lungo, lo so, ma era doveroso essere esaustivi e precisi) come fosse una sorta di “manifesto” sulla terminologia corretta della disabilità, con la speranza di chiarire una volta per tutte come è meglio relazionarci ad essa. Perché è vero che le buone intenzioni che stanno dietro a certe frasi hanno il loro valore, ma è altrettanto vero che (come la sociologia ci insegna) se cambiamo il modo di chiamare qualcosa, quel qualcosa cambia e quindi cambierà anche il modo attraverso il quale le persone si rapportano ad esso. Insomma, le parole sono importanti: usiamole nel modo giusto e contribuiremo a creare una società più inclusiva!

Punto di partenza: un po’ di definizioni
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (1980), tramite la classificazione ICIDH (International Classification of Impairments Disabilities and Handicaps), dobbiamo distinguere:
– Menomazione (impairment): “perdita o anormalità a carico di una struttura o di una funzione psicologica, fisiologica o anatomica”;
– Disabilità (disability): “qualsiasi limitazione o perdita (conseguente a menomazione) della capacità di compiere un’attività nel modo o nell’ampiezza considerati normali per un essere umano”;
– Handicap: “condizione di svantaggio, conseguente a una menomazione o a una disabilità, che in un certo soggetto limita o impedisce l’adempimento del ruolo normale per tale soggetto in relazione all’età, al sesso e ai fattori socioculturali”.

Nonostante il termine “menomazione” sia oggi considerato vecchio (e offensivo), è chiaro da queste tre definizioni che l’handicap sia visto già negli anni ’80 come una condizione soggettiva che potrebbe non esistere se venissero eliminate le barriere architettoniche e sociali (i fattori socioculturali, appunto). Ma è nel 1999 che l’OMS compie un grande passo avanti conferendo un’accezione “positiva” al termine della disabilità, estendendolo a tutti e dandogli un valore universale, ma soprattutto scegliendo coraggiosamente di eliminare il termine “Handicap” dai documenti ufficiali e internazionali, attraverso la “Classificazione Internazionale delle Menomazioni, delle Attività personali (ex-Disabilità) e della Partecipazione sociale (ex handicap o svantaggio esistenziale)” (ICIDH-2). Il 21 Maggio del 2001, infine, sempre l’OMS realizza cinque nuove classificazioni:

– Funzioni corporee (funzioni fisiologiche dei sistemi corporei, compreso quelle psicologiche);
– Strutture corporee (parti anatomiche del corpo);
– Attività (compiere azioni o svolgere compiti);
– Partecipazione (coinvolgimento in attività quotidiane);
– Fattori ambientali (contesto fisico e sociale, atteggiamenti e cultura che possono incidere sulla vita dell’individuo, la sua inclusione e partecipazione, le sue possibilità).

Questa classificazione ICF sostituisce quella dell’ICIDH, diventando così il nuovo standard di classificazione dello stato di malattia e di salute: il fine è quello di cogliere le difficoltà nel contesto socioculturale, descrivendo così la quotidianità delle persone in relazione all’ambiente circostante, evidenziandone l’unicità e la globalità e non tanto il fatto che abbiano una disabilità fisica o mentale.

Successivamente, secondo la Commissione Europea Delivering eAccessibility (26/9/2002): “La disabilità è l’insieme di condizioni potenzialmente restrittive derivanti da un fallimento della società nel soddisfare i bisogni delle persone e nel consentire loro di mettere a frutto le proprie capacità”.
Una parte di questa ricerca preliminare è stata curata anche da Roberto Castaldo, docente e divulgatore di informatica specializzato nello studiare le problematiche legate all’accessibilità dei siti web. Ma ora entriamo nel vivo della terminologia…

Regola numero 1: malattia, sofferenza e costrizione.
Iniziamo con un concetto fondamentale: la disabilità non è una malattia, bensì una “condizione” momentanea nella quale non riusciamo a fare qualcosa, superabile se mettessimo a disposizione gli strumenti giusti (una carrozzina, un computer, un ascensore, un servizio di assistenza…). Per questo motivo sono assolutamente bandite tutte quelle parole (o figure) che rimandano a un concetto di disabilità come sofferenza e dolore, impedimento o costrizione, incapacità.

È sbagliato dire:
– Affetto da… Malato di… Soffre di… (la disabilità non è una malattia ma una condizione che dipende soprattutto dall’interazione con l’ambiente);
È corretto dire:
– Con (disabilità, sindrome di…).

È sbagliato dire:
– Menomato/Handicappato (termini vecchi, diventati oggi offensivi – sondaggio rivista Focus 2009 – e esclusi anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità già nel 1999);
– Portatore di… (“portare” indica un vincolo e quindi svantaggio, ma io non “porto” la mia disabilità – che tra l’altro, chi porta qualcosa ha la possibilità di lasciarla quando vuole, cosa che in questo caso non è possibile).
È corretto dire:
– Condizione/condizione genetica (stato momentaneo che tutti viviamo in qualche aspetto della vita quotidiana e pratica, ma che può essere risolto con i giusti strumenti – chi è miope può vedere bene con gli occhiali e chi non sa nuotare può stare a galla con i braccioli, anche quelle sono delle disabilità).

È sbagliato dire:
– Costretto/Imprigionato/Confinato sulla sedia a rotelle (la carrozzina è un aiuto, uno strumento paragonabile ad un paio di scarpe in grado di rendere liberi, e non certo un peso che costringe, opprime e crea sofferenza);
È corretto dire:
– Su sedia a rotelle/che utilizza la carrozzina per spostarsi.

Insomma, basterebbe semplicemente chiamare le cose con il loro nome senza esprimersi con un linguaggio emotivamente forte o sensazionalistico (tipico, ad esempio, del giornalismo per catturare l’attenzione e commuovere i lettori), che in fin dei conti l’empatia andrebbe dimostrata con i fatti e non con le parole. Anche quando parliamo di disabilità è sempre bene specificare di che tipo si tratta, se possibile, per essere meno generici e superifiali.
È sbagliato dire:
– portatore di una disabilità;
È corretto dire:
– persona con una ridotta funzionalità degli arti inferiori;

E sebbene “i disabili” sia tollerabile per il plurale, indicando un gruppo di persone con disabilità, quando ci si rivolge ad una singola persona dovremmo chiamarla per nome: vi è capitato di sentire “il signor disabile” o “il signor Mario Rossi”? Spero vivamente la seconda. Le etichette lasciamole ai quaderni.

Regola numero 2: la persona prima di tutto
L’errore nel quale inciampano molti è quello di evidenziare la disabilità anziché anteporre la persona: un soggetto, anche se disabile, non è certo la sua carrozzina. Rappresentare una persona con quattro ruote anziché con un nome, un carattere, dei sentimenti, pregi e difetti, significa sminuirla e mancarle di rispetto. Ecco perché come appellativo sarebbe bene evitare certi termini.

È sbagliato dire:
– Un disabile/Un handicappato/Un sordo/Un cieco (ho un nome, mi chiamo Iacopo, usalo!), per non parlare poi dei termini fantasiosi che ho sentito, inventati da chi cercava di compensare la propria ignoranza, come diversabile;
È corretto:
– Una persona con disabilità/Una persona cieca o sorda (la persona viene prima di tutto, mentre la disabilità è una caratteristica della persona, non una malattia).

È sbagliato dire:
– Ritardato/handicappato mentale oppure Down (non si identifica una persona con la sua disabilità o la sua sindrome) e mongoloide (accezione vecchia e oggi dispregiativa, che poi non c’è nemmeno relazione tra la popolazione mongola e le persone con sindrome di Down e si tratta di un paragone che un tempo veniva fatto per pura arretratezza culturale);
È corretto dire:
– Persona con disabilità intellettiva oppure persona con sindrome di Down (la disabilità o la sindrome caratterizzano le persone ma di certo non le annullano sostituendosi ad esse).

Regola numero 3: politicamente corretto e disabilità sensoriali
Utilizzare il termine “diversamente” non addolcisce un bel niente, anzi, crea ulteriore discriminazione. Per citare l’immenso Franco Bomprezzi, firma del Corriere della Sera e portavoce di tantissimi, “non sei diversamente abile, o sei abile o non lo sei”. Ecco perché, in questo caso, dire “diversamente abile” o “con diverse abilità” lascia intendere che qualcuno sia comunque “diverso” dagli altri e quindi, in un certo senso, inferiore (tra l’altro oggi l’avverbio “diversamente” indica, nell’immaginario comune, l’opposto di qualcosa, per esempio qualcuno “diversamente onesto” è “disonesto”).

Anche la negazione “non” davanti qualcosa è scorretto. La stessa comunità dei sordi, ad esempio, si dichiara appunto “sorda” anziché “non-udente”, così come i ciechi si auto definiscono “ciechi” anziché “non-vedenti”. Può sembrare brutale, forse, per voi, ma vi garantisco che se mi chiamassero “non-deambulante” mi sentirei preso in giro e non poco. Dire “non vedente” o “non udente” invece di “cieco” o “sordo” o “zoppo” non migliora la condizione di chi vive una disabilità sensoriale o fisica, per cui il politicamente corretto è assolutamente da evitare. Aggiungo una curiosità: con la legge n. 95 del 2006, all’articolo 1, si sostituisce la parola “sordomuto” con quella di “sordo”. Le alternative corrette, come per “disabile”, sono quindi: persona con disabilità sensoriale, persona con disabilità visiva (o disabili visivi), persona con disabilità uditiva, persona con deficit visivo, persona con deficit uditivo.

A ribadire quanto inutili siano certi eufemismi è Tullio De Mauro, semiologo e linguista: “La prima cosa da dire è che questo campo semantico è un campo di battaglia, dove antiche ottiche, impastate di ignoranze e pregiudizi, si scontrano con nuove conoscenze e sensibilità, con nuove esigenze di scienza, di vita sociale, di umanità. Questa storia antica sopravvive tuttora nel nostro parlare, ci è difficile liberarcene per la concretezza e crudezza che ci offre per definire in modo non mieloso ed eufemistico chi mal ode, o vede, o articola, o si muove, o tiene la stazione eretta, o “ragiona come noi”. E non solo sopravvive: in anni recenti talune comunità di persone con alcune forme di disabilità hanno rivendicato il diritto a continuare a denominarsi con le parole più crude e dirette. Ciechi, dunque, o sordi, contro il tentativo pressante di introdurre espressioni elaborate in sedi specialistiche e usate spesso in chiave di copertura eufemistica: videolesi, audiolesi, motulesi, non vedenti, non udenti, non deambulanti…” (Patete A., Le parole per dirlo, inchiesta in “SuperAbile Magazine”, febbraio 2012).

È sbagliato dire:
– diversamente abile/con diverse abilità;
– non vedente/non udente/non deambulante;
È corretto dire:
– persona con disabilità;
– cieco/sordo/persona con disabilità visiva/persona con disabilità uditiva/persona con cecità/persona con sordità.

Insomma, in entrambi i casi, sia in quello del “diversamente abile” che in quello del “non-qualcosa”, si sottende un’accortezza ed una premura dal sapore pietistico e compassionevole, un occhio di riguardo del quale non abbiamo bisogno se vogliamo trattare in modo spontaneo un disabile, al pari degli altri. Molto meglio un secco “disabile”, che è comunque chiaro e preciso, piuttosto che girare intorno alla disabilità per paura di offendere e urtare la sensibilità. La discriminazione, in fin dei conti, passa anche da questo. E se sono le “comunità” dei diretti interessati a dichiarare questo un motivo c’è, fidatevi e ascoltatele.

Regola numero 4: i “normodotati” e quelli “speciali” non esistono
Così come ognuno di noi non sa fare qualcosa (chi non sa nuotare, chi non sa suonare uno strumento e chi invece è negato a cucinare), tutti noi siamo bravi in qualcos’altro di diverso. Ci sono quindi delle disabilità ma anche delle abilità in ogni persona. Ecco perché dobbiamo stare attenti nel definire chi non ha una disabilità evidente. Così come dobbiamo smetterla di vedere le persone con disabilità come persone “speciali” o “eroi”: questi termini sono il massimo del pietismo e della compassione. Facciamo un breve schema…

È sbagliato dire:
– normali: perché implica che gli altri non siano normali (quello di “normalità” è un concetto davvero impossibile da definire, una pretesa sciocca);
– normodotati: perché implica che gli altri siano ipodotati;
– abili: perché implica che gli altri siano inabili.
È corretto dire:
– “normodotati” o “cosiddetti normodotati”: mettere delle semplici virgolette può sembrare stupido, eppure fa capire il concetto sottolineando comunque che il termine “normodotati” è scorretto;
– temporaneamente “normodotati” (da TAB – Temporaly Abled Bodied): rarissimo, soprattutto nell’uso comune, ma è bene ricordarlo perché evidenzia il fatto che una disAbilità non sia necessariamente congenita ma anche conseguente ad una malattia o un infortunio.

È sbagliato dire:
– Persone speciali/eroi (il massimo del pietismo e della compassione, il modo migliore per discriminare chi vorrebbe essere trattato in modo semplice, spontaneo e naturale);
È corretto dire:
– Niente… Assolutamente niente! Anziché enfatizzare la “condizione” di una persona con disabilità, vedendo come eroico il gesto più semplice che questa possa compiere giusto per darle una simbolica pacca sulla spalla (che è la cosa più fastidiosa che possa esserci), trattatela esattamente come tutti gli altri. Diresti mai che “tutti quelli biondi” o “tutti quelli che mangiano l’insalata” sono speciali? Non credo, perché tra i biondi ci sono persone buone ma anche cattive, gente simpatica o antipatica: e allora perché non dovrebbe valere lo stesso, ad esempio, con i ciechi?

Regola numero 5: la disabilità come insulto
Inutile dire che se la disabilità non deve avere in alcun modo una connotazione negativa, usare i termini che fanno riferimento alla disabilità come insulto è quanto di più stupido ci possa essere. Lottiamo ogni giorno per ottenere una società inclusiva e per vedere riconosciuti i diritti più scontati (poter vivere da soli, spostarsi in autobus, andare all’università, prendersi una vacanza…), ma fintanto che continueremo ad offendere dando del “mongolide” o “handicappato” a qualcuno, alimentando discriminazione, non faremo altro che calpestare il futuro di tanti ragazzi che ogni giorno vengono relegati ai margini e messi all’ombra della superficialità. Direste mai a qualcuno che vi sta antipatico “sei proprio un Mario Rossi!!”? Non penso, anche perché il buon Mario non ne sarebbe felice. Quindi perché dare di “disabile” a qualcuno, usando un’intera categoria che, invece, è probabilmente abile da capire un concetto così semplice?

Se non vogliamo discriminare dobbiamo parlare di disabilità in modo spontaneo e diretto, chiamando le cose col loro nome senza girarci intorno e senza addolcire con il politicamente corretto. Niente "diversamente qualcosa" (es: diversamente abile) e niente "non qualcosa" (es: non vedente): si dice cieco, sordo, persona con disabilità. Quello di "normalità" è un concetto che non significa niente, di conseguenza i "normodotati" non esistono: siamo tutti disabili o particolarmente abili in qualcosa.

Tiriamo le conclusioni…
La disabilità non è una malattia, non è la disabilità a provocare sofferenza ma l’impossibilità di fare certe cose quando ci scontriamo con un contesto sfavorevole. Evitiamo un linguaggio compassionevole e sensazionalistico: niente “costretto sulla carrozzina” (si dice “persona che si sposta in carrozzina”), “affetto da…”, “soffre di…” (si dice “persona con…”), e altro ancora.
Evidenziare e anteporre la “persona”, non la disabilità: io non sono la mia carrozzina, per cui non chiamarmi “disabile” ma “Iacopo”, al massimo “Iacopo, un ragazzo con disabilità”.
Se non vogliamo discriminare dobbiamo parlare di disabilità in modo spontaneo e diretto, chiamando le cose col loro nome senza girarci intorno e senza addolcire con il politicamente corretto. Niente “diversamente qualcosa” (es: diversamente abile) e niente “non qualcosa” (es: non vedente): si dice cieco, sordo, persona con disabilità.
Quello di “normalità” è un concetto che non significa niente, di conseguenza i “normodotati” non esistono: siamo tutti disabili o particolarmente abili in qualcosa.
Usare la disabilità come insulto è stupido: se appelli qualcuno come “disabile!”, “handicappato!”, “cerebroleso!” o peggio ancora “mongoloide!” (termine vecchio e offensivo) non sei una bella persona.
Per riassumere, vi inserisco una tabella ben fatta tratta dal portale “webacessibile.org”. Grazie per aver letto fino qui e speriamo che il modo in cui le persone si rapportano alla disabilità (e la comunicano) compia ulteriori passi avanti, e che a migliorare siano soprattutto i professionisti delle parole. Usare i termini giusti e precisi, senza alimentare pietismo o il politicamente corretto, contribuisce ad agire in modo più spontaneo e naturale, e quindi decisamente migliore. E chissà: magari il giorno in cui la disabilità non verrà più percepita dallo sguardo delle persone arriverà davvero presto.


InVisibili
di Corriere – @Corriere
Vignetta Staino su linguaggio e disabilità (da DM)
Vignetta Staino su linguaggio e disabilità (da DM)

Basta! Proviamo a non usarli più? Diversamente abile, invalido, disabile: basta!
Le parole sono importanti. Di più, le parole mostrano la cultura, il grado di civiltà, il modo di pensare, il livello di attenzione verso i più deboli. Non è una esagerazione. Cambiamo il linguaggio e cambieremo il mondo. Ci sono parole da usare e non usare. E quelle da non usare non vanno usate. Hai voglia a dire: chiamami come vuoi, l’importante è che mi rispetti. No! Se mi chiami in maniera sbagliata mi manchi di rispetto. Se parliamo di disabilità, proviamo a usare termini corretti, rispettosi? Parole da usare e non usare. Concetti da esprimere o da reprimere.

Semplicemente: persona con disabilità. L’attenzione sta lì, sulla persona. La sua condizione, se proprio serve esprimerla, viene dopo. La persona (il bambino, la ragazza, l’atleta ecc.) al primo posto. Questa è una delle indicazioni fondamentali che giungono dalla “Convenzione Internazionale sui diritti delle persone con disabilità” (New York, 25 agosto 2006, ratificata, e quindi legge, dallo Stato Italiano). Non: diversamente abile, disabile, handicappato (ma lo usa ancora qualcuno?), portatore di handicap (come se avesse quel fardello, l’handicap, da portarsi appresso: grazie a DM, la rivista della Uildm, per la straordinaria vignetta di Staino, che fra l’altro ha una disabilità, essendo cieco), invalido.
Già, invalido: quante volte, troppe, sentiamo questa parola ultimamente. Letteralmente una persona che non è valida. Il 10 per cento della popolazione mondiale (stima per difetto) ha una disabilità, quindi non è valido.
“Diversamente abile” o “diversabile” (suggerito da Claudio Imprudente, animatore storico del Centro Documentazione handicap di Bologna, le cui riflessioni sono sempre interessanti) hanno avuto forse una valenza anni fa, ora non più. “L’errore è di principio: nella dizione ‘diversamente abili’, infatti, viene proposto come prioritario il concetto di ‘diversità’… La disabilità non è una diversità, ma una condizione di vita. Ogni individuo è diverso dall’altro senza che per questo venga meno il valore, implicita una inferiorità”, scrive Silvia Galimberti, giornalista, in una bella tesi di laurea dedicata al linguaggio sulla disabilità, partendo dallo sport paralimpico. Se si parla di sport, atleti paralimpici è consigliabile, anche riferito a quegli sport che non sono presenti alla Paralimpiade. Negli Stati Uniti, il National Center on Disability and Journalism, ha un’ottima “style guide”, molto valida non solo per l’inglese, come la BBC, con sezioni sulle categorie deboli e la disabilità.
Disabile (e tutti i termini che indicano il tipo di disabilità: paraplegico, tetraplegico, cieco, amputato, non vedente) non va usato come sostantivo: si confonde una parte con il tutto e così si riduce, offende, umilia una persona. Utilizzabile, invece, “disabili” al plurale: si indica un gruppo, come gli scolari o i politici.
Aimee Mullins, una delle più grandi sprinter paralimpiche, amputata alle gambe come Pistorius, un giorno scrisse un articolo per l’edizione italiana di Wired, dove era in copertina, e trasferì la riflessione in un bellissimo discorso. Prima di scrivere aprì il dizionario dei sinonimi alla parola disabile: andate a vedere al link o ascoltate il discorso (è stupendo e ha i sottotitoli in italiano) per vedere cosa ci ha trovato. “Sembrava che io non avessi nulla di positivo”.
Alcuni termini sembrano obsoleti e invece sono ancora molto usati: per indicare una persona con paralisi cerebrale o cerebrolesa si dice spastico, che fra l’altro è diventato termine offensivo; come ritardato per dire di qualcuno che ha una disabilità intellettiva e relazionale (lo so, sono termini composti e lunghi, ma per ora sono i migliori). Negli Stati Uniti è stata lanciata una campagna mondiale per abolirla: r-word, ne abbiamo fatto un post anche su InVisibili.
C’è chi scambia malattia e disabilità, come se i termini fossero interscambiabili: la disabilità è una condizione che può essere causata da malattia, ma non è una malattia. Attenzione a credere siano discorsi banali: per un bambino la malattia si attacca, se sto vicino a una persona cieca prendo la cecità. Usare “afflitto da”, “sofferente per” parlando di una persona con disabilità la pone come una “vittima”, triste e da aiutare: può esserlo, come per tutti, ma non è implicito che lo sia.
Il dibattito sul linguaggio è vivo e appassionante. Quello che diciamo ora fra qualche anno sarà cambiato. Il mondo paralimpico è stato importante. Prima che la rete facesse circolare idee, il maggior numero di persone con disabilità presenti nello stesso momento nello stesso luogo era ai Giochi Paralimpici. Nel tempo il linguaggio intorno alla disabilità è cambiato. In meglio. Anche grazie allo sport. Alla Paralimpiadi sono consegnati ai giornalisti veri e proprio lossari, con indicazioni da seguire e anche norme di comportamento. Dire a una persona cieca “ci vediamo dopo? Hai visto?” o a una in carrozzina “fai una corsa qui” è assolutamente corretto, anzi si è invitati a farlo: non modificare il discorso se si parla con o è presente una persona con disabilità, sarebbe discriminatorio. Meglio il singolare, dicono gli inglesi: “a disability” e non “disabilities”. Un segno evidente di disabilità è la carrozzina (non “carrozzella”, che è trainata dai cavalli). La carrozzina è un mezzo di mobilità, liberazione, indipendenza: aiuta, non limita. Per questo è da evitare “confinato, relegato in carrozzina”. Meglio, “usa una carrozzina”. Si potrebbe continuare, ma sono stato già troppo lungo. Il concetto fondamentale è quello dell’inizio: il focus è sulla persona. Essere “politicamente corretti” nel linguaggio aiuta ad avere rispetto. Non bisogna vergognarsene.