tragedia del vajont 9 ottobre 1963 prima pagina corriere della sera Incontri e conferenze

Per non dimenticare il Vajont – Oggi alla Loggia di Fra Giocando


convegno anniversario vajont verona

rettifica: credevo l’incontro si tenesse nella loggia esterna, non nella sala al primo piano, non accessibile… questa foto l’ha fatta chi mi accompagnava

locandina incontro vajont verona

click sull’immagine per scaricare la locandina

VAJONT, per non dimenticare. Incontro-dibattito
E oggi?

Dissesto ambientale e rapporto uomo-ambiente nel territorio veronese
L’incontro nasce dalla pubblicazione del libro profetico sulla tragedia del Vajont (13 ottobre 1963) di Armando Gervasoni

I CORVI DI ERTO E CASSO
Voci dal Vajont, Prefazione di Isabella Bossi Fedrigotti, Cura editoriale di Stefano Ferrio,
Gabrielli editori 2012

Saluto delle Autorità: Presidente e Vice Presidente, Assessori all’Ambiente, alla Cultura e alla Protezione Civile della Provincia di Verona
Intervengono:

– Isabella Bossi Fedrigotti, giornalista e scrittrice
– Stefano Ferrio, giornalista e scrittore
– Giorgio Zampetti, del Comitato scientifico di Legambiente Nazionale
– Lorenzo Albi, Presidente di Legambiente Verona
– Filippo Toso, Ordine degli Ingegneri

Lo straordinario e commovente spettacolo di Marco Paolini dedicato al Vajont su youtube

 

Sito dedicato alla tragedia del Vajont del 9 ottobre 1963

LA STRAGE DEL VAJONT

estratti dal sito Botta

Per soddisfare la necessità di elettricità di industrie nazionali si fece avanti l’idea della costruzione di una diga.

Venne scelta come zona per ospitare il progetto la Valle del Toc situata fra il Friuli ed il Veneto e di cui fa parte il paese di Longarone nel Bellunese.

Corre l’anno 1928 in cui il geologo Dal Piaz stende una prima relazione per la costruzione di un bacino artificiale nella valle del torrente Vajont da cui ha prenderà il nome la diga.

Nell’anno 1943 il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici con presenti solo 13 deputati su 36 approva senza aver raggiunto il numero regolare dei voti il progetto.

L’apertura ufficiale del cantiere composto inizialmente da circa 400 operai per la costruzione della diga inizia nell’anno 1956 per mano dell’Ing.Carlo Semenza della Società SADE (Società Adriatica di Elettricità) che nonostante relazioni tecnico-geologiche della zona in molti casi accantonate o ignorate iniziò ugualmente i lavori senza neanche aver ottenuto alcuna autorizzazione.

Per il tempo la costruzione di questa diga era considerata un opera eccezionale con ripercussioni positive anche all’estero essendo considerata anche la diga più alta d’Europa.

Per aumentare la produttività dell’impianto nel 1957 si decide di alzare la diga di 60 metri portandola da 200 metri a 260 metri aumentando di conseguenza la capienza dai 58 milioni di metri cubi a 158 milioni.

Basti pensare che la somma dei 7 serbatoi artificiali presenti in tutto il Cadore era di 68 milioni di metri cubi.

Il geotecnico Muller subentrato all’ormai anziano Dal Piaz si accorge che il terreno è franoso e stende una relazione alla SADE ma nonostante tutto i lavori continuano.

Nell’anno 1958 il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici nomina la commissione di collaudo composta da 2 ingegneri ed un geologo per controllare che la diga venga costruita secondo le prescrizioni.

Intanto nella diga di Pontesei una frana provoca un ondata di 20 metri.

La stampa durante la costruzione non pubblica mai un articolo, tutto viene mantenuto segreto, ci si deve accontentare solo dei bollettini emessi dalla SADE.

Solo la giornalista Tina Merlin pubblica sul suo giornale un articolo sul Vajont e per questo la SADE sporge denuncia per pubblicazione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico.

Verrà poi assolta nel processo che si terrà il 30 novembre 1960.

Muller avvista poi sul Monte Toc un inizio di frana con forma a “M” e per questo parte una nuova perizia geologica a cura di Edoardo Semenza e Giudici.

Vengono riconfermate le previsioni di Muller, la presunta frana sarebbe antica poì rimessosi in movimento.

Ancora una volta la SADE accantona la relazione di Edoardo Semenza e i lavori continuano.

Viene ultimata la diga, inizio a 460 Mt s.l.m fine 721 Mt s.l.m.

La diga del Vajont Un altra veduta della diga

Fu cosi che si procedette il 9 febbraio 1960 alla prima prova di invaso portando il livello dell’acqua a quota 660 Mt. s.l.m. e durante il quale dal Monte Toc inizia ad avanzare la frana e a sentire rumori provenienti dalla montagna.

In giugno dello stesso anno i geologi Semenza (figlio del progettista) e Giudici in una relazione mai resa nota dalla SADE evidenziano il rischio che l’acqua dell’invaso possa rimettere in movimento la frana.

Il 4 novembre si stacca un pezzo di roccia dal Monte Toc e contemporaneamente si apre una fessura lunga 2.500 metri.

Ci si chiede se il movimento del terreno sia solo superficiale o profondo.

Si decide di abbassare il livello a 600 metri.

Prova di invaso della diga

Il 19 luglio 1961 la SADE affida al Prof. Ghetti dell’Università di Padova la costruzione di un modello della diga per effettuare delle prove che determinino le conseguenze in caso di caduta di una frana dal monte Toc cosa ormai ritenuta da tutti possibile.

Nei mesi di agosto-settembre vengono collocati sulla sponda sinistra del Monte Toc quattro tubi di acciaio che raggiungono la profondità di 221 metri e che servono a controllare se la frana è a livello superficiale o profondo.

Se i tubi si spezzano la frana è superficiale, mentre se rimangono intatti significa che è profonda in quanto vengono trascinati da tutta la massa franante senza essere intaccati.

Frattanto Semenza e Dal Piaz muoiono, subentra Biadene.

Nell’anno 1962 con la nazionalizzazione dell’energia elettrica si annuncia una svolta per la diga del Vajont in quanto la SADE dovrà vendere la stessa al nuovo ente chiamato ENEL per cui cercherà di trarne maggior profitto possibile.

Il 3 luglio dopo prove effettuate sul modellino della diga il Prof. Ghetti in una relazione consegnata alla SADE scrive di non oltrepassare mai il livello di 700 Mt s.l.m.

In questo caso se dovesse cadere una frana l’onda sarebbe alta 20/30 metri, superando tale livello l’onda diventerebbe ingovernabile.

Questa relazione non viene però resa pubblica.

A novembre viene eseguita la seconda prova di invaso portando il livello a quota 700 metri.

Nonostante la frana sul Monte Toc sia in atto l’Ing.Biadene della SADE cancella dai rapporti quindicinali al Ministero le scosse sismiche registrate mediante le apparecchiature installate alla diga.

Il 2 dicembre il livello della diga viene portato a quota 647,5 metri.

La SADE che doveva cedere all’Enel la diga voleva a tutti i costi farla apparire come pienamente funzionante in modo da trarne maggior profitto e fu così che nella primavera del 1963 in occasione del terzo invaso porto la stessa alla massima capienza ( 715 metri ) nonostante la montagna dava sempre più insistenti segni di cedimento.

Nelle settimane precedenti il disastro si arrivo all’impossibile collaudo della diga in modo da presentarla come perfettamente funzionante.

In occasione dell’ultimo invaso quando si raggiunge la quota di 715 metri sul Monte Toc si apre una nuova fessura, gli alberi si inclinano e sulla strada si formano degli avvallamenti.

Si decide di abbassare bruscamente il livello scendendo di 70 cm al giorno, ma più l’acqua scendeva, più la frana avanzava.

Biadene telefonò alla sede dell’ENEL-SADE affinche si invii un telegramma di sgombero ai sindaci della zona del Monte Toc, Longarone non fu fatta sgomberare.

Fu cosi che la sera del 9 ottobre 1963 alle ore 22,45 una frana della grandezza di 2 Km quadrati e composta da 260 milioni di metri cubi di roccia staccatosi dal Monte Toc a quota 1.800 metri precipita nel lago artificiale formato dalla diga.

L’onda alta 200 metri sollevata dalla frana si divise in altre due onde.

La prima prese di striscio le frazioni più basse dei paesi di Erto e Casso mentre la seconda ancora più violenta cancellò completamente il paese di Longarone che sorgeva a valle della diga.

La seconda ondata impiegò 2 minuti per raggiungere Longarone distante circa 2 Km dalla diga.

Le vittime accertate furono 1909 di cui 1450 nella sola Longarone.

Il dopo frana Ciò che resta

Subito si mise in moto la macchina dei soccorsi ed alle ore 0,15 della stessa serata il Battaglione “Cadore” del 7° Alpini era già sul posto.

Vennero avvisati anche il IV ed il V Corpo D’Armata.

Intervennero il Comando della S.E.T.A.F. di Vicenza con escavatrici, fotoelettriche, gruppi elettrogeni,arrivarono ambulanze da ogni parte.

Prese il comando delle operazioni il Comandante del IV Corpo D’Armata Generale Carlo Ciglieri.

In tutto tra Ufficiali, Sottufficiali e militari di truppa il personale ammontava ad oltre 10.000 unità.

Anche i Vigili del Fuoco diedero il loro prezioso contributo.

Oltre 850 unità dotati di 3 elicotteri e 271 mezzi meccanici portarono soccorso ed assistenza.

A stretto contatto con le truppe operarono anche i Carabinieri che con l’impiego di tutti i mezzi disponibili oltre a svolgere compiti di soccorso e di assistenza vigilavano sulle operazioni di recupero delle salme affinché nulla venisse sottratto.

La Polizia Stradale mobilitò tutte le sue forze disponibile per far si che mezzi di soccorso giungessero nel minor tempo possibile.

Gli ospedali e le case di cura della zona furono tutte messe in allarme pronte ad accogliere eventuali feriti o superstiti.

Venne subito scelto un campo che serviva ad accogliere le salme dei ritrovati.

Venne scelto uno spazio a Fortogna nel comune di Longarone.

Sabato 9 ottobre alle ore 18.00 fu benedetto lo spazio ed iniziò immediatamente l’opera di inumazione.

Tutte le salme venivano pulite per permetterne il riconoscimento da parte dei parenti e dopo essere state benedette da un sacerdote venivano inumate.

Fu cosi che ogni vittima anche quelle non riconosciute ebbe un funerale civile.

Un quarto delle vittime per volere dei parenti fu seppellito in altri cimiteri.

Soccorritori al lavoro

Il cimitero delle vittime

Tre giorni dopo il disastro il Ministero dei Lavori pubblici in accordo con il Presidente del Consiglio nomina la Commissione di inchiesta che il 14 ottobre si insedia.

Ha tempo 2 mesi per stabilire le cause che hanno determinato il disastro.

Il processo di primo grado che si conclude il 17 dicembre 1969 chiede 21 anni per tutti gli imputati per disastro colposo e frana aggravati dalla previsione dell’evento.

La previsione dell’evento non viene riconosciuto.

Il Comune di Longarone intenta una causa per rivalersi sulla Montedison in cui è confluita la SADE ma perde la causa.

Il 16 dicembre 1975 viene condannata l’ENEL al risarcimento dei danni subiti dalle pubbliche amministrazioni.

Sette anni dopo il 3 dicembre 1982 ribaltando la sentenza precedente la Corte di Appello di Firenze condanna Enel e Montedison a risarcire lo stato dai danni subiti e Montedison a risarcire il Comune di Longarone.

Il ricorso della Montedison non si fa attendere ma il 17 dicembre 1986 viene riconfermata la sentenza emessa nel 1982.

Infine il 15 febbraio 1997 il Tribunale Civile di Belluno condanna la Montedison a risarcire i danni subiti dal Comune di Longarone oltre alle spese ed onorari vari.

Ancora oggi i danni non sono stati liquidati del tutto.

Il primo matrimonio dopo la strage Alcune fasi del processo

Si conclude qui la triste storia che ha visto protagonista la Diga del Vajont.

Segnalo infine di visitare per chi volesse approfondire le proprie conoscenze gli indirizzi www.vajont.net curato direttamente dal Comune di Longarone che riporta in modo molto dettagliato fatti ed avvenimenti dell’epoca e dove potete, tramite la Pro Loco di Longarone acquistare on line materiale vario riguardante il disastro e partecipare ad un forum on-line e www.sopravvissutivajont.org curato direttamente da alcuni sopravvissuti a quell’immane tragedia.

Consiglio a tutti di vedere il monologo di Paolini sul Vajont e il film di Martinelli.

Cliccando quì accederete direttamente ad un archivio fotografico realizzato da Flavio Mazzer con molte fotografie riguardanti la diga e i luoghi della catastrofe.