Ovazioni per la grandissima Patti Smith
Applausi e standing ovation al concerto di Patti Smith per i 40 anni di Horses al Teatro Romano di Verona, Rassegna Rumors (direzione artistica Elisabetta Fadini).
Prima del concerto Patti Smith ha ricevuto un premio dalla Città di Verona in quanto “Ambasciatrice dell’amore e della bellezza dell’arte in tutto il mondo”, consegnato dall’Assessore Anna Leso.
Dopo tanti riconoscimenti conferiti a Patti Smith nel mondo, anche noi vogliamo rendere omaggio alla sua grande carriera artistica. I motivi di questo riconoscimento della città di Verona, che le conferiamo ringraziandola per quanto da Lei fatto a livello internazionale, riguardano la parola, la poesia, la musica e il sociale che hanno da sempre contraddistinto la sua vita artistica “ambasciatrice” dell’amore e della bellezza dell’arte in tutto il mondo
Flavio Tosi, Sindaco di Verona
Un’artista che ha reso più bello il mondo e intelligentemente ispirato più generazioni di donne
Video Gallery Patti Smith / Horses
Galleria fotografica concerto Patti Smith
LA RECENSIONE
Patti Smith, cerimonia al Teatro Romano
Verona, la «sacerdotessa del rock» propone i brani del disco d’esordio «Horses» nell’unica tappa veneta del tour
Sono solo i capelli, grigi e un po’ arruffati, di Patti Smith a ricordare che sono passati 40 anni dalla pubblicazione di “Horses”. Lo scatto in bianco e nero di Robert Mapplethorpe che ritraeva la “sacerdotessa del rock”, bellissima, in panni unisex, a metà “tra Baudelaire e Frank Sinatra” sulla copertina del disco, è diventato un’icona. Un simbolo della letteratura del rock di cui la cantautrice di Chicago ha scritto pagine importanti, fondamentali, per quattro decenni. Quella di venerdì al Teatro Romano è stata una cerimonia, più che un semplice concerto, in cui la “sciamana” ha celebrato, proponendo in maniera filologica l’intero disco d’esordio “Horses”, la liturgia del rock, senza alcuna nostalgia ma con un’energia, un carisma e una grazia che appartengono solo ai grandi. Era il 1975 quando Patti Smith decideva di dare alle stampe “Horses”, inserito da Rolling Stone al 44 esimo posto della classifica dei 500 migliori dischi di sempre, un album seminale, in cui la poesia contemporanea ha incontrato la ruvidezza del rock, lasciando intravedere in alcuni pezzi, con preveggenza mistica, la pelle graffiata di quello che sarebbe diventato il furore del movimento punk.
Una pietra miliare della storia del rock, collocato alla 44esima posizione nella classifica dei 500 migliori album del XX secolo della rivista Rolling Stone. Un capolavoro che la musicista, oggi 68enne, ha voluto fare ascoltare per intero al Teatro Romano, sold out da tempo, nell’unica tappa veneta del tour intitolato “Patti Smith and her band perform Horses 1975-2015”. Prima dell’inizio la “sciamana” ha ricevuto sul palco un riconoscimento da parte della Città di Verona, per i suoi meriti in ambito artistico, culturale e sociale; è il primo riconoscimento ufficiale ed istituzionale conferitole in Italia. Poi c’è spazio solo per la musica, e i cavalli di razza hanno iniziato a correre liberi a cominciare da “Gloria”, cover del brano scritto da Van Morrison nel 1964 per la prima band di cui faceva parte, gli Them. Patti Smith, ha il suo stile, giacca su pantaloni scuri, sorrisi ampi, e un’attitude punk mai mitigata: i 40 anni svaniscono improvvisamente con uno sputo sul palco: è iniziata la cerimonia. Il tempo di dire “Verona”, regalando un bacio al pubblico e continua la liturgia con “Redondo beach” dal mood reggae. “Grazie” sorride la “sciamana”, poi, foglio in mano, recita e canta la lunga suite di “Birdland”. Passa “Free money” e la cantante mima il gesto di girare il disco, “Abbiamo il vinile di “Horses”, ora lo giriamo e facciamo il lato B” e via con “Kimberly” dal tocco new wave, Ancora “Break it up”, fino a “Land” vero capolavoro del disco, divisa a sua volta in tre momenti, con reprise di “Gloria” in cui il pubblico si scatena nei cori. “Questa è l’ultima canzone di “Horses” ed è stata scritta per Jimi Hendrix: è dedicata a tutti quelli che non ci sono più ma che rimangono nel tuo cuore”.
“Elegie” si trasforma così in un momento sacro, in cui la cantante nomina le persone scomparse a lei care: elenca i nomi dei Ramones, i Clash, il marito Fred “Sonic” Smith, Pier Paolo Pasolini, Robert Mapplethorpe, il matematico John Nash, Lou Reed. Brividi. Tra gli applausi Patti Smith presenta la band. I suoi compagni di palco dal 1975 Lenny Kaye alla chitarra e basso, Jay Dee Daugherty alla batteria (anche chitarra), il figlio Jackson Smith alla chitarra e basso, Tony Shanahan al basso e tastiere, nella band dal 1996. “Sono felice di aver presentato “Horses” a Verona – confessa la cantante, tagliando i ponti tra pubblico e palcoscenico – oggi ho mangiato una meravigliosa pasta con i carciofi e ho anche preso un po’ di raffreddore”. Ma il concerto non è finito. Il secondo set è spinto e pesantemente rock. “Privilege (Set Me Free)” e “Dancing barefoot” danno fuoco alle polveri. Poi Patti decide di andare a salutare il pubblico e scende in platea stringendo mani e regalando sorrisi mentre sul palco la band propone due canzoni dei Velevet Underground, “Rock ‘n’ roll” e “I’m waiting for the man”. “Questa canzone è dedicata al papà di Jack, Fred “Sonic” Smith”, dice la cantautrice guadagnano il microfono per lanciare “Because the night”, capolavoro firmato assieme a Bruce Springsteen. “Papa Francesco ha dato un bellissimo messaggio sulla nostra terra, la gente può cambiare il mondo, noi possiamo farlo”: è arrivato il momento catartico di “People have the power” che colpisce come una onda potentissima i 1800 del Romano. Il bis chiude il cerchio di “Horses”, con la b-side di “Gloria” uscita nel 1976: “My generation” degli Who. La versione di Patti Smith è punk, sporca e groovosa, inframmezzata da versi liberi improvvisati: “Niente guerra, solo pace e amore, liberate le menti, lasciate liberi i cavalli”. Nel finale imbraccia una Fender e si lancia in effetti di feedback e distorsioni, in una performance che sfiora l’arte con il gran finale della cantante che strappa con violenza le corde della chitarra. “Vi auguro una bellissima vita, siate forti e non abbiate paura, buonanotte a tutti”, congeda il pubblico la sacerdotessa del rock.
RUMORS. Il grande ritorno per i 40 anni del disco «Horses»
Patti Smith, pubblico in delirio al Teatro Romano
Un’ovazione dietro l’altra per i celebri brani che la «sacerdotessa» ha regalato ai fans. Una targa della città le è stata consegnata dall’assessore Leso
Una ovazione dietro l’altra da parte di una platea al gran completo ieri sera al Teatro Romano: per Patti Smith un trionfo annunciato per «Rumors». Tornava dalle nostre parti a quasi dieci anni di distanza da un «Verona Folk» al Castello Scaligero di Villafranca. Il Teatro Romano era completamente esaurito già da parecchi giorni. Lei c’era già stata nel 1996, ai tempi di «Gone Again», e anche allora era stata un’esibizione indimenticabile. Ora, ovviamente, la regina della poesia rock ha i capelli ancora ribelli ma imbiancati, il volto segnato dalle rughe come una saggia pellerossa, gli occhiali da vista. Ma la ragazza che guardava con aria di sfida l’obiettivo di Robert Mapplethorpe dalla copertina di «Horses» è fiera e precisa come allora, e non ha perso un grammo del suo fascino a dispetto dell’età. Prima città italiana a consegnarle un premio istituzionale la targa della città le è stata consegnata prima del concerto dall’assessore ai Servizi Sociali Anna Leso: Verona ha voluto giustamente inchinarsi ad un’artista che continua a distinguersi per coerenza e urgenza espressiva, passionalità e carisma, strenua difesa del pacifismo e del potere della gente.Poi le celebrazioni per «Horses» e alcuni dei suoi più grandi hits, quelli che non possono mai mancare come «People have the power» e la versione di «My generation» degli Who. Sul palco insieme a lei, Lenny Kaye alla chitarra e Jay Dee Daugherty alla batteria, storici compagni dal 1975 che hanno partecipato alle recording session di «Horses», il figlio Jackson Smith, alla chitarra e Tony Shanahan al basso che collabora con Patti dal suo ritorno sulla scena, dalla metà degli anni Novanta. In scaletta, dunque, «Gloria», cover del brano di Van Morrison, che apre il disco, «Redondo Beach» dal ritmo reggae, nato dopo una violenta lite con la sorella, i lunghi 9 minuti di «Birdland», suite di piano voce e chitarra. E ancora «Free Money», «Kimberly» dal tocco new wave, «Break it up», dove emerge la chitarra di Tom Verlaine, fino a «Land», vero capolavoro del disco, divisa a sua volta in tre momenti: «Horses», «Land Of a Thousand Dances»». E poi la mitica «Because the night» che scatena tutto il teatro.B.M.
Teatro Romano, Patti Smith la poetessa e i suoi «Horses»
Le canzoni dell’album simbolo, di cui celebra il 40° e le altre tappe di una straordinaria carriera
Con lei tre musicisti storici e suo figlio JacksonPer noi è l’appuntamento clou non solo del Festival Rumors Illazioni Vocali, ma di tutta l’estate musicale veronese 2015. Non a caso da tempo sold-out, e probabilmente Patti Smith avrebbe potuto riempire il Teatro Romano anche per più di un concerto. Benissimo ha fatto Elisabetta Fadini (direttrice artistica di Rumors, di cui è anche l’ideatrice) ad inserirla in una rassegna dedicata principalmente alle «voci». Quella di Patti è inconfondibile, di intensità straordinaria, capace di mille sfaccettature. Un po’ come uno dei suoi eroi, Jim Morrison, Patti Smith viene forse più considerata come autrice per lei il termine «poetessa» è sicuramente appropriato che come performer. Errore, anche se magari oggi l’ex-ragazza del CBGB (il celebre rock club di New York) è, sul palco, un po’ più «tranquilla»; perché Patti è anche e soprattutto grandissima rocker, pur non essendo strettamente parlando nemmeno una musicista provetta. Ma dai suoi esordi ad oggi, su disco e sul palcoscenico, si è sempre dimostrata anche interprete di assoluta eccellenza, all’altezza delle più accreditate voci di sempre nel settore.E poi, lo diciamo senza tentennamenti avendo avuto l’opportunità di ascoltarla live in varie e diverse occasioni (per esempio anche con Philip Glass per un recital in onore del suo grande amico Allen Ginsberg), sul palco Patti Smith è dotata di un carisma fortissimo, cui è difficile sfuggire anche per chi ha poca dimestichezza con la sua canzone. Forse solo Bob Dylan, non a caso un altro dei suoi incrollabili eroi (perché questo è il termine appropriato nel caso di Patti, artista che ha sempre vissuto di miti ed entusiasmi conclamati), ne è ugualmente dotato.Com’è ormai ampiamente noto, stasera alle 21 Patti Smith con la sua Band (i due «originali» Lenny Kaye alla chitarra e Jay Dee Daugherty alla batteria, più l’ormai «veterano» Tony Shanahan al basso, e Jackson Smith, figlio di Patti, alla chitarra) eseguirà in toto l’album di debutto Horses, di cui si celebra nel 2015 il quarantesimo anniversario e di cui abbiamo ampiamente parlato in queste pagine. Ma ci piace ricordare almeno alcuni degli altri highlight di un percorso quasi impeccabile dal punto di vista discografico (forse solo appena sbiadito ma se lo può permettere nelle sue ultime prove, comunque mai con pesanti cadute di tono). E allora, se dovessimo scegliere, diremmo in ordine cronologico Easter del 1978, con l’hit assoluto Because the Night (scritta assieme a Bruce Springsteen) ed altri pezzi fenomenali come Space Monkey, Ghost Dance, Rock’n’Roll Nigger, 25th Floor. Wave del ’79, è generalmente un po’ sottovalutato dalla critica, ma la portò all’apice della popolarità nel nostro paese, contiene un lato A travolgente ed uno dei massimi capolavori di Patti, Dancing Barefoot. Dalla ricca produzione dell’ultimo ventennio opteremmo per l’eccezionale Gone Again del 1996 (un album intriso di morte – in quel periodo Patti era stata colpita da una serie incredibile di lutti tra familiari e amici ma contemporaneamente al dolore anche un inno alla vita, alla speranza, alla necessità di continuare con forza ancora maggiore) e il successivo Peace and Noise con pezzi memorabili come Waiting Underground e 1959. Twelve, uscito nel 2007, è un ottimo saggio della capacità interpretativa della Smith, che per l’occasione rilegge tra le altre canzoni di Jimi Henrdrix, Neil Young, Rolling Stones, Grace Slick dei Jefferson Airplane, Jim Morrison & Doors, Dylan, Kurt Cobain & Nirvana: un po’ il pantheon dei suoi massimi punti di riferimento.Per quanto riguarda la bibliografia, ci piace ricordare Patti Smith Complete Canzoni, riflessioni, diari, tradotto da Massimo Bubola e pubblicato da Sperling & Kupfer nel 2000. E l’autobiografico Just Kids, che la Feltrinelli ha pubblicato nel 2010, dedicato agli anni condivisi da Patti con Robert Mattlethorpe, l’autore della straordinaria foto della copertina di Horses.
Beppe Montresor
Patti Smith, cerimonia al Teatro Romano
Verona, la «sacerdotessa del rock» propone i brani del disco d’esordio «Horses» nell’unica tappa veneta del tour
Sono solo i capelli, grigi e un po’ arruffati, di Patti Smith a ricordare che sono passati 40 anni dalla pubblicazione di “Horses”. Lo scatto in bianco e nero di Robert Mapplethorpe che ritraeva la “sacerdotessa del rock”, bellissima, in panni unisex, a metà “tra Baudelaire e Frank Sinatra” sulla copertina del disco, è diventato un’icona. Un simbolo della letteratura del rock di cui la cantautrice di Chicago ha scritto pagine importanti, fondamentali, per quattro decenni. Quella di venerdì al Teatro Romano è stata una cerimonia, più che un semplice concerto, in cui la “sciamana” ha celebrato, proponendo in maniera filologica l’intero disco d’esordio “Horses”, la liturgia del rock, senza alcuna nostalgia ma con un’energia, un carisma e una grazia che appartengono solo ai grandi. Era il 1975 quando Patti Smith decideva di dare alle stampe “Horses”, inserito da Rolling Stone al 44 esimo posto della classifica dei 500 migliori dischi di sempre, un album seminale, in cui la poesia contemporanea ha incontrato la ruvidezza del rock, lasciando intravedere in alcuni pezzi, con preveggenza mistica, la pelle graffiata di quello che sarebbe diventato il furore del movimento punk.
Una pietra miliare della storia del rock, collocato alla 44esima posizione nella classifica dei 500 migliori album del XX secolo della rivista Rolling Stone. Un capolavoro che la musicista, oggi 68enne, ha voluto fare ascoltare per intero al Teatro Romano, sold out da tempo, nell’unica tappa veneta del tour intitolato “Patti Smith and her band perform Horses 1975-2015”. Prima dell’inizio la “sciamana” ha ricevuto sul palco un riconoscimento da parte della Città di Verona, per i suoi meriti in ambito artistico, culturale e sociale; è il primo riconoscimento ufficiale ed istituzionale conferitole in Italia. Poi c’è spazio solo per la musica, e i cavalli di razza hanno iniziato a correre liberi a cominciare da “Gloria”, cover del brano scritto da Van Morrison nel 1964 per la prima band di cui faceva parte, gli Them. Patti Smith, ha il suo stile, giacca su pantaloni scuri, sorrisi ampi, e un’attitude punk mai mitigata: i 40 anni svaniscono improvvisamente con uno sputo sul palco: è iniziata la cerimonia. Il tempo di dire “Verona”, regalando un bacio al pubblico e continua la liturgia con “Redondo beach” dal mood reggae. “Grazie” sorride la “sciamana”, poi, foglio in mano, recita e canta la lunga suite di “Birdland”. Passa “Free money” e la cantante mima il gesto di girare il disco, “Abbiamo il vinile di “Horses”, ora lo giriamo e facciamo il lato B” e via con “Kimberly” dal tocco new wave, Ancora “Break it up”, fino a “Land” vero capolavoro del disco, divisa a sua volta in tre momenti, con reprise di “Gloria” in cui il pubblico si scatena nei cori. “Questa è l’ultima canzone di “Horses” ed è stata scritta per Jimi Hendrix: è dedicata a tutti quelli che non ci sono più ma che rimangono nel tuo cuore”.
“Elegie” si trasforma così in un momento sacro, in cui la cantante nomina le persone scomparse a lei care: elenca i nomi dei Ramones, i Clash, il marito Fred “Sonic” Smith, Pier Paolo Pasolini, Robert Mapplethorpe, il matematico John Nash, Lou Reed. Brividi. Tra gli applausi Patti Smith presenta la band. I suoi compagni di palco dal 1975 Lenny Kaye alla chitarra e basso, Jay Dee Daugherty alla batteria (anche chitarra), il figlio Jackson Smith alla chitarra e basso, Tony Shanahan al basso e tastiere, nella band dal 1996. “Sono felice di aver presentato “Horses” a Verona – confessa la cantante, tagliando i ponti tra pubblico e palcoscenico – oggi ho mangiato una meravigliosa pasta con i carciofi e ho anche preso un po’ di raffreddore”. Ma il concerto non è finito. Il secondo set è spinto e pesantemente rock. “Privilege (Set Me Free)” e “Dancing barefoot” danno fuoco alle polveri. Poi Patti decide di andare a salutare il pubblico e scende in platea stringendo mani e regalando sorrisi mentre sul palco la band propone due canzoni dei Velevet Underground, “Rock ‘n’ roll” e “I’m waiting for the man”. “Questa canzone è dedicata al papà di Jack, Fred “Sonic” Smith”, dice la cantautrice guadagnano il microfono per lanciare “Because the night”, capolavoro firmato assieme a Bruce Springsteen. “Papa Francesco ha dato un bellissimo messaggio sulla nostra terra, la gente può cambiare il mondo, noi possiamo farlo”: è arrivato il momento catartico di “People have the power” che colpisce come una onda potentissima i 1800 del Romano. Il bis chiude il cerchio di “Horses”, con la b-side di “Gloria” uscita nel 1976: “My generation” degli Who. La versione di Patti Smith è punk, sporca e groovosa, inframmezzata da versi liberi improvvisati: “Niente guerra, solo pace e amore, liberate le menti, lasciate liberi i cavalli”. Nel finale imbraccia una Fender e si lancia in effetti di feedback e distorsioni, in una performance che sfiora l’arte con il gran finale della cantante che strappa con violenza le corde della chitarra. “Vi auguro una bellissima vita, siate forti e non abbiate paura, buonanotte a tutti”, congeda il pubblico la sacerdotessa del rock.
L PERSONAGGIO. Una vera maestra dell’interpretazione e del ritmo
«Horses», la cerimonia rock della sacerdotessa Patti Smith
Beppe Montresor
Mamma mia, Patti Smith, che roba! Diciamo la verità, negli ultimi anni, un po’ per qualche album non brutto ma non «ficcante» come in precedenza, per le sue numerose «comparsate» anche in contesti quasi nazional-popolari, o comunque un po’ ovunque vi fossero occasioni «politicamente corrette», e un po’ soprattutto per la spietatezza dei dati anagrafici (l’anno prossimo saranno 70), temevano di trovarci alla resa dei conti con un altro «dinosauro» del rock ormai declinante. Siamo usciti dal Teatro Romano non solo rinfrancati o tranquillizzati, ma addirittura inebriati, non meno di tutte le altre precedenti occasioni, negli ultimi vent’anni, in cui avevamo avuto la fortuna di vederla e ascoltarla in carne ed ossa. E al termine dello strepitoso concerto per «Rumors», azzardiamo una considerazione: tra i «Mostri Sacri» del rock mondiale ancora in attività Patti Smith è la numero uno. Com’è noto, al Teatro Romano è andata in scena la celebrazione dei quarant’anni di «Horses», il suo album di debutto del ’75. Beh, diciamo che il capolavoro con cui lei debuttò ufficialmente sul mercato discografico conserva, oggi come allora, tutta la sua devastante elettricità di poesia declamata in puro rock’n’roll, anche per merito di una band che come sempre, senza orpelli e autocompiacimenti (e con un Tony Shanahan che, dividendosi tra basso e tastiera, gioca bellamente un ruolo importante accanto al «guru» Lenny Kaye, a Jay Dee Daugherty e a Jackson, figlio di Patti che tra l’altro l’ha resa recentemente nonna), risulta perfettamente funzionale alla vera e propria «lezione» impartita da Patti. Magari qualcuno potrà rilevare, confrontandola con la storia, i capelli ingrigiti, il volto non più fresco come una rosa, gli occhiali necessari per leggere i primi versi di Birdland, una durata più breve del concerto (un’ora e mezzo bis compresi) rispetto al passato, qualche accenno di raucedine verso la fine dello stesso (peraltro lei si è anche scusata per il raffreddore): inezie.Si potrebbe cominciare dicendo che anche sul piano meramente fisico Patti Smith conserva agilità ed eleganza di movimenti, energia vocale e mimica tali da infondere al suo proverbiale, immenso carisma, ulteriore capacità incantatoria. Ancora oggi la poesia rock di Patti Smith è sexy, erotica e mai volgare come e anche più di quella di uno dei suoi «santi», Jim Morrison, ricordato esplicitamente in «Break It Up». Succede così con «Gloria» e di nuovo con «Birdland», «Kimberly», «Horses», «Land Of The Thousand Dances», «Dancing Barefoot», «Set Me Free». Introduce «Elegie» dicendo che all’epoca era stata pensata per ricordare Jimi Hendrix, ma che oggi vale per tutte le persone scomparse che ci sono care, come per lei Fred «Sonic» Smith, Pier Paolo Pasolini, Robert Mattlethorpe. Sembra che tutta l’energia vitale, di idee e di sogni, incarnata da questo suo pantheon di «eroi» si sia concentrata nella figura esile ma da indomabile «guerrigliera», di Patti. Quei sogni ed ideali, dice, che hanno contraddistinto «My Generation». Nell’ovazione continua che ha contraddistinto buona parte del set, ci rimane nella testa la finale raccomandazione che ci fa Patti: «Be Strong!», «Siate Forti!»; per difendere pace, uguaglianza, salvaguardia del pianeta.
PATTI SMITH “Live Teatro Romano Verona 19-06-2015”
(2015)
Da sempre affezionata all’Italia, Patti Smith snocciola una serie di concerti (saranno in totale sette) per festeggiare con il suo pubblico un’altra estate di musica. Troppo imperiosa ed ampia l’Arena, la scelta ricade sul comunque più che suggestivo Teatro Romano. Una moda di questi ultimi anni, quella di molti artisti di celebrare importanti album della loro discografia: concerti a tema in cui l’intero lavoro viene eseguito dall’A alla Z, condividendo con gli appassionati la ricorrenza del caso. È “Horses” l’album che la grande sacerdotessa del rock celebrerà live stasera (e per l’intero tour); un anniversario non certo da poco, se consideriamo che l’esordio discografico di Patti Smith festeggia le quaranta primavere. Non solo “Horses” in effetti, ma più realmente i concerti di questa estate vogliono celebrare l’artista Patti Smith ed i suoi primi quarant’anni di carriera, da quando, ragazzina a New York, sentì forte la responsabilità di prendere in prima persona la (ri)nascita della musica; musica che non era ancora punk e non era ancora wave, ma che si sarebbe dimostrata embrionale per entrambi i generi, condizionando fortemente gli anni a venire. A testimoniare il carattere commemorativo della serata, all’artista viene conferito, da parte dell’amministrazione comunale, un premio alla carriera: il pubblico tributa un lungo applauso all’americana e, per converso, non fa mancare il proprio disappunto alla giunta Tosi (le recenti polemiche politiche pare che abbiano lasciato il segno!!!). Per rendere ancora più straordinaria la celebrazione di “Horses”, Patti Smith viene accompagnata sul palco dai musicisti che realizzarono il disco del 1975. Parliamo di musicisti da sempre legati alla poetessa: il fidato Lenny Kaye, insieme ai tamburi di Jay Dee Daugherty (membri originari di quel Patti Smith Group del 1975), e poi il figlio Jackson Smith alla seconda chitarra e Tony Shanahan alle tastiere e basso. Quando sono da pochi minuti passate le 21.00 (e, soprattutto, quando da pochissimo ha appena smesso di piovere sulla città di Giulietta), i musicisti salutano il Teatro Romano. Apre le danze “Gloria” ed il pubblico è, da subito, accogliente al punto giusto. Così come impresso sul disco, la “Gloria” della signora Smith è ancora più coinvolgente dell’originale firmata Van Morrison, quando con i primi Them la incise nel 1965. È un rock che porta immediatamente alla partecipazione collettiva; è un modo di rompere il ghiaccio alla grande e di fare cantare il pubblico con un insolito (ma ormai classico) gospel metropolitano. “Redondo beach” è, invece, una delle canzoni più fragili dell’intero repertorio. È un reggae giocoso o troppo easy, ma con il merito di far sorridere gli spettatori (vediamo che anche dal palco non mancano i sorrisi), e con l’oceanica “Birdland” si entra in pieno nelle grandi composizioni della Smith: inizio lento e crescendo coinvolgente, mentre la voce (che parte come un sussurro) rivelò, da subito, il ruolo di poetessa e sacerdotessa, facendo apparire la canzone più uno sfogo letterario piuttosto che un virtuosismo canoro. Quella che, molto probabilmente, è la migliore del disco, rimane anche l’esecuzione più artisticamente alta dell’intera serata. Durante il concerto la Smith si scusa con il pubblico perché ammette di non sentirsi al meglio e di avere un po’ di raffreddore. Disagio probabilmente solo suo, considerato che la voce esce ancora brillantemente ruvida come in passato, indenne dal passaggio del tempo. “Free money” mantiene il concerto sul versante dell’emotività; “Kimberly” scende di tono da un punto di vista prettamente qualitativo, ma ci fa comunque apprezzare la rocker Patti Smith, capace di rendere piacevoli e credibili canzoni francamente deboli e senza troppo piglio su disco, pronte, invero, a diventare hit concertistici per il sol fatto di essere interpretate da lei. Due parole le meritano certamente i due “vecchi” del complesso. Jay Dee Daugherty è un portento ai tamburi; le canzoni di “Horses” non sono impossibili da realizzare, ma la maestria con cui delizia ogni passaggio sono momenti di assoluto godimento. Lenny Kaye, invece, è l’alter ego maschile di Patti Smith; difficile o sconcertante sarebbe pensare ad un concerto dell’americana senza l’ombra amica del padre dei “Nuggets”. Un grande. Sul finale, c’è spazio per un bis di “Gloria” e per una “Elegie” in cui Patti Smith intende ricordare alcuni dei suoi amici scomparsi. Si va dai (molti ormai) Ramones che ci hanno abbandonato, passando a Jim Morrison, Joe Strummer ed al marito Fred “Sonic” Smith, chiudendo con il grande Lou Reed. Per i bis gli artisti scelgono alcuni brani ineliminabili nei loro live set. È scontata la riproposizione di “Because the night”, ma è toccante l’occhiata che si scambiano madre e figlio, quando la rocker dedica il brano al “Papà di Jackson” (il figlio intanto imbraccia la chitarra elettrica che fu già arma sonica di quel Fred Smith, leader degli MC5) e con “Dancing barefoot” arriva un altro classicone del gruppo. Patti Smith non è un fenomeno di bellezza e non è certo una ballerina; tuttavia, rimaniamo incantati nell’osservare quel movimento che, seppur parzialmente sgraziato, riesce ad essere femminile e sinuoso al tempo stesso: ed allora anche la grande cantante si riappropria delle fattezze che vennero immortalate nel disco “Easter”, quando quei fotogrammi dipingevano una bellezza assai difficile da raccontare. Patti Smith lascia il palco al suo gruppo che, in risposta, esegue alcuni classici del rock (Shanahan e Kaye alla voce), e segnaliamo una brillante “I’m waiting for the man” dei Velvet Underground. In questo frangente la cantante non torna nel backstage, ma si offre completamente al suo pubblico, aggirandosi per il teatro, stringendo mani e facendosi apprezzare da vicino: un modo per cementare il rapporto con i fan. Il segnale di grande positività non poteva non essere celebrato con la canzone che, più di tutte, sintetizza il pensiero di Patti Smith, e con “People have the power” ci si esalta con un messaggio per le nuove generazioni: “Siete voi il futuro! Voi avete in mano il destino del mondo. Siete più forti dei Governi!”. L’ultimo rientro è per “My generation”, la cover degli Who che il Patti Smith Group suonò già nel 1975 e che compare, quale bonus track, nella riedizione dell’album festeggiato questa sera. I musicisti coinvolgono un pubblico sempre più rapito dalla genuinità della performance; è una macchina infallibile Daugherty, così bravo da non far rimpiangere Keith Moon, mentre Patti Smith sul finale della canzone si fa portare una chitarra, ma anziché suonarla stacca (quasi rabbiosamente) le corde, cercando tuttavia di riprodurre un qualcosa che non necessariamente è musica o suoni, ma più verosimilmente è solo energia. E quando sul palco sale Patti Smith, di energia ne arriva sempre tanta. (TESTO: GIANMARIO MATTACHEO)