La Storia di Antigone con Anita Caprioli e Didie Caria
La Storia Di Antigone
giovedì 7 marzo ore 20.45
Teatro Camploy per la Rassegna l’Altro teatro
favola in musica per cornacchie, cani selvatici, maledizioni, tiranni, sepolcri & fanciulle in fiore
riscritta da Ali Smith dalla tragedia di Sofocle
raccontata da Anita Caprioli e cantata da Didie Caria
regia Roberto Tarasco
Appuntamento della sezione Prosa della rassegna L’Altro Teatro con Anita Caprioli, che propone La storia di Antigone, spettacolo tratto dalla celebre tragedia di Sofocle.
Si tratta di una “favola in musica per cornacchie, cani selvatici, maledizioni, tiranni, sepolcri & fanciulle in fiore” riscritta da Ali Smith, cantata da Didie Caria e raccontata da Anita Caprioli con la regia di Roberto Tarasco.
La Caprioli torna al teatro dove aveva esordito sul finire degli anni ’90 per poi passare al cinema dove si mise subito in evidenza come interprete di Senza movente di Luciano Odorizio e dove ha collezionato, negli anni, notevoli riconoscimenti.
La storia di Antigone (che rimane, a distanza di millenni, una straordinaria storia di emancipazione, di una contestazione, risoluta e avventata, contro la “tirannia” della legge) è il resoconto di una cornacchia appollaiata su una delle sette porte di Tebe. Dalla sua formidabile posizione l’uccello assisterà al tentativo di Antigone di dare sepoltura al fratello Polinice contro la volontà del re Creonte.
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READING: LA STORIA DI ANTIGONE
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La “Storia di Antigone” è il resoconto di una cornacchia appollaiata su una delle Sette Porte di Tebe. Dalla sua posizione il pennuto assiste al tentativo di Antigone di dare sepoltura al cadavere del fratello Polinice contro la volontà del nuovo re Creonte. Scoperta da una guardia, Antigone viene condannata ad essere tumulata in una grotta. Questo porta al suicidio del figlio di Creonte, Emone, promesso sposo di Antigone, ed al decesso della madre, moglie del re: “e morirono tutti felici e contenti”.
Rimane la cornacchia, con la sua fresca nidiata di cornacchiotti satolli di cibo, a raccontare la storia dal principio.
Da un idea di Alessandro Baricco e Scuola Holden
Con Anita Caprioli cantata da Didie Caria sculture di Giovanni Tamburelli abiti Sartoria Bassani.
Autore: Sofocle, riscrittura Ali Smith / Regia: Roberto Tarasco
Anita Caprioli
Anita Caprioli (Vercelli, 11 dicembre 1973) è un’attrice italiana.
Biografia
Studia recitazione a Milano con l’argentino Raoul Manso e a Roma per diversi anni frequenta i laboratori di Beatrice Bracco; nel 1991 a Londra partecipa ad alcuni workshop con la direzione di Andrea Brooks. Tra il 1988 ed il 1997 lavora in teatro nel Cerchio di gesso del Caucaso, ne La locandiera, regia di Andrea Brooks, e ne Il berretto a sonagli, regia di Andrea Taddei.
Nel 1997 appare per la prima volta sugli schermi cinematografici con il film Tutti giù per terra di Davide Ferrario. Si fa notare poi nel complesso ruolo di Rita Squeglia nel film di Luciano Odorisio, Senza movente (1999). Nel 2000 è Mara in Denti, regia di Gabriele Salvatores. Nel 2001 interpreta il ruolo di Ancilla in Vajont – La diga del disonore di Renzo Martinelli, a fianco di Daniel Auteuil e Michel Serrault; nello stesso anno interpreta il ruolo di Dolores nel film di Marco Ponti, Santa Maradona, e, nel 2002, recita insieme ad Alessio Boni nel film drammatico per la TV L’altra donna, per la regia di Anna Negri.
Successivamente, sotto la direzione di Carlo Verdone, gira la commedia Ma che colpa abbiamo noi (2003) e, diretta da Giovanni Veronesi, ha un ruolo in Manuale d’amore (2005). Nel 2004 interpreta il personaggio di Catherine nella miniserie tv Cime tempestose, tratto dall’omonimo romanzo di Emily Bronte, e l’anno seguente è protagonista – nel ruolo di Francesca – nel film Onde, regia di Francesco Fei, Adriana Cutolo ne La guerra di Mario, diretto da Antonio Capuano, e Anna in Cielo e terra di Luca Mazzieri. Sempre nel 2005, interpreta la fiction in 2 puntate “Sacco e Vanzetti” di Fabrizio Costa.
Nel 2006 è la protagonista del film Per non dimenticarti, regia di Mariantonia Avati, e del film di Eugenio Cappuccio Uno su due. L’anno successivo è interprete inNon pensarci, regia di Gianni Zanasi, con Valerio Mastandrea e Giuseppe Battiston, presentato in anteprima alla Mostra di Venezia, e de I demoni di San Pietroburgo, regia di Giuliano Montaldo.
Nel 2008 recita a fianco di Claudio Bisio nel film Si può fare, diretto da Giulio Manfredonia. Nel 2011 recita nel film Immaturi e nello stesso anno entra a far parte del cast di Tutti pazzi per amore 3 nel ruolo di Eva, amica lesbica della protagonista Laura. Nel 2012 esce al cinema il sequel di Immaturi: Immaturi – Il viaggio, dove riprende il ruolo di Eleonora.
Nel 2012 riceve una candidatura ai David di Donatello come migliore attrice protagonista.
Carriera
Teatro
- Cerchio di Gesso del Caucaso (1988)
- La locandiera (1995)
- Il berretto a sonagli (1996)
- La locandiera (1997)
Cinema
- Tutti giù per terra, regia di Davide Ferrario (1997)
- Fuochi d’artificio, regia di Leonardo Pieraccioni (1997)
- Domani, regia di Giulio Ciarambino (1998)
- Donne in bianco, regia di Tonino Pulci (1998)
- Tre addii, regia di Mario Caiano (1999)
- Senza movente, regia di Luciano Odorisio (1999)
- Venti, regia di Marco Pozzi (1999)
- Denti, regia di Gabriele Salvatores (2000)
- L’uomo della fortuna, regia di Silvia Saraceno (2000)
- Vajont – La diga del disonore, regia di Renzo Martinelli (2001)
- Santa Maradona, regia di Marco Ponti (2001)
- Ma che colpa abbiamo noi, regia di Carlo Verdone (2003)
- Onde, regia di Francesco Fei (2005)
- Cielo e terra, regia di Luca Mazzieri (2005)
- Manuale d’amore, regia di Giovanni Veronesi (2005)
- La guerra di Mario, regia di Antonio Capuano (2005)
- Per non dimenticarti, regia di Mariantonia Avati (2006)
- Uno su due, regia di Eugenio Cappuccio (2006)
- Non pensarci, regia di Gianni Zanasi (2007)
- I demoni di San Pietroburgo, regia di Giuliano Montaldo (2007)
- Vogliamo anche le rose, voce narrante, regia di Alina Marazzi (2007)
- Si può fare, regia di Giulio Manfredonia (2008)
- Je suis venu pour elle, regia di Ivan Taieb (2009)
- Good morning, Aman, regia di Claudio Noce (2009)
- Cocapop, regia di Pasquale Pozzessere (2009)
- Immaturi, regia di Paolo Genovese (2011)
- Corpo celeste, regia di Alice Rohrwacher (2011)
- Interno giorno (film, regia di Tommaso Rossellini (2011)
- Il mio paese, regia di André Ristum (2011)
- La kryptonite nella borsa, regia di Ivan Cotroneo (2011)
- Immaturi – Il viaggio, regia di Paolo Genovese (2012)
Televisione
- La donna del treno, regia di Carlo Lizzani – Miniserie TV (1998)
- L’altra donna, regia di Anna Negri – Film TV (2002)
- Cime tempestose, regia di Fabrizio Costa – Miniserie TV (2004)
- Sacco e Vanzetti, regia di Fabrizio Costa – Miniserie TV (2005)
- Il bambino della domenica, regia di Maurizio Zaccaro – Miniserie TV (2008)
- Non pensarci – La serie, regia di Lucio Pellegrini e Gianni Zanasi – Miniserie TV (2009)
- Crimini 2 – La doppia vita di Natalia Blum, regia di Anna Negri – Film TV (2010)
- Tutti pazzi per amore 3, regia di Laura Muscardin – Serie TV (2011)
- A fari spenti nella notte, regia di Anna Negri – Film TV (2012)
Cortometraggi [modifica]
- Assolo, regia di Marco Pozzi (1995)
- Il sorriso di Diana, regia di Luca Lucini (2002)
- All Human Rights for All, regia di Giorgio Treves (2008)
- Biondina, regia di Laura Bispuri (2011)
Doppiatrice [modifica]
- 300, regia di Zack Snyder (2007) – voce della regina Gorgo
Collegamenti esterni
Biografia Didie Caria
Didie Caria e’ nato il 26 Marzo del 1980 a Torino da padre sardo e madre siciliana. Ha iniziato a prendere lezioni di tecnica vocale quando aveva 15 anni sotto il consiglio di sua madre e a quel tempo era semplicemente un gioco. A 17 anni ha frequentato un seminario di musica gospel a Genova studiando con il REV. LEE BROWN che dopo il workshop ha deciso di assumerlo come corista e solista per il suo tour italiano della stessa estate. Da quel momento tutto e’ iniziato. Ha fatto concerti con lui dappertutto in Europa e in Giappone e intanto la passione per la musica iniziava a crescere. A 21 anni inizia ad interessarsi di teatro e fonda una compagnia con la quale mette in scena una rivisitazione di Jesus Christ Superstar cantando nel ruolo di Giuda.
“Cantare era la mia forma di espressione principale ma iniziavo a consapevolizzare che il corpo era lo strumento nel quale la voce viveva”
Decide quindi di studiare danza Butoh (una forma di danza contemporanea sperimentale giapponese) per tre anni per approfondire il discorso sulla presenza scenica e da li a poco e’ stato interprete di diversi spettacoli per il TEATRO STABILE di Torino e L’E.T.I. sotto le coreografie di Michela Lucenti e Barbara Altissimo. Ha lavorato a Telecitta’ Studios come doppiatore-cantante per cartoni animati quali the Muppets, Jimmy out of head, ecc. in onda su DISNEY CHANNEL e CARTOON NETWORK. A 24 anni scrive il suo primo album chiamato CERCHI SULLA SABBIA con le musiche di Lionel Wharton (della Band tedesca – Jamaram) a cui seguono le musiche e le parole del secondo album chiamato LADRO DI STORIE che concorre come finalista al Premio Lunezia, il Lennon Festival, Isernia “La canzone italiana d’autore” e MUSICULTURA XX edizione. Durante la scrittura dell’album non smette mai di esibirsi live con diverse formazioni soul e jazz e lavora nei festival musicali dei raduni modiali per l’HARLEY DAVIDSON. Dal 2008 e’ insegnate di tecnica vocale e interpretazione presso diverse strutture (l’istituto musicale Leone Sinigaglia di Chivasso, ecc.) Ha collaborato con DJ JAD (Articolo 31) cantando il primo singolo del suo nuovo album uscito il 3 Febbraio 2010 e distribuito dalla Edel dal titolo “SE LO VUOI”.
“Piu continuo a fare musica e piu mi rendo conto che le differenti forme espressive e il dialogo che si crea tra queste e’ necessario a un artista per crescere. Sperimentare in differenti linguaggi e promuovere un’ attitudine artistica giovane e’ quello che mi da’ piu’ gioia”
Nell’ambito teatrale si e’ contemporaneamente consolidata la collaborazione con l’attore comico Dario Benedetto, il regista Roberto Tarasco con il quale scrive spettacoli ed interventi teatrali all’interno di molteplici manifestazioni per gli enti: Teatro stabile Alessandrino, Torino e Spiritualita’, Circolo dei Lettori,Sistema Teatro Torino, Assemblea Teatro… Attualmente e’ in tour con una rilettura dell’Antigone commissionata da Alessandro Baricco e dalla scuola Holden, occupandosi delle creazioni sonore che accompagnano la tragedia, dividendo il palco con l’attrice del cinema Anita Caprioli, prossimo debutto 29 settembreTeatro Olimpico di Vicenza.
DISCOGRAFIA
“Moon river” STEPHANY prodotto da Azzurra Music .
“All better” JOYMORA distribuzione Sony Music entertainment (Italy) .
“TSU. Rime e Ragioni” e “Credo. Principe”prodotto e distribuito dalla Suite Foundation (ATPC).
“Cerchi sulla sabbia” Musiche di Lionel Wharton e testi di Didie Caria. Autoprodotto
“Anima di Legno” opera composta da Nik Comoglio, suonata dall’orchestra Filarmonica di Torino, distribuzione 121musicstore.com.
“ Ladro di storie ” Musica e parole Didie Caria. Autoprodotto.
“Il Sarto. Dj Jad” prodotto da La Sartoria Records e distribuito dalla EDEL Italia.
Antigone (Sofocle)
Antigone | |
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Tragedia | |
Antigone (Frederic Leighton, 1830-1896) |
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Autore | Sofocle |
Titolo originale | Ἀντιγόνη |
Lingua originale | Greco antico |
Genere | Tragedia greca |
Ambientazione | Davanti al palazzo reale diTebe, Grecia |
Prima assoluta | 442 a.C.[1] Teatro di Dioniso, Atene |
Premi | Vittoria alle Grandi Dionisiedel 442 a.C.[1] |
Personaggi | |
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Riduzioni cinematografiche | *Antigone (1961) di Yorgos Javellas
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Antigone (Ἀντιγόνη, Antigóne) è una tragedia di Sofocle, rappresentata per la prima volta ad Atene alle Grandi Dionisie del 442 a.C.[1]
L’opera appartiene al ciclo di drammi tebani ispirati alla drammatica sorte di Edipo, re di Tebe, e dei suoi discendenti. Altre due tragedie di Sofocle, l’Edipo re e l’Edipo a Colono, descrivono gli eventi precedenti, benché siano state scritte anni dopo.
Indice[nascondi]
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Trama [modifica]
L’opera racconta la storia di Antigone, che decide di dare sepoltura al cadavere del fratello Polinice contro la volontà del nuovo re di Tebe Creonte. Scoperta, Antigone viene condannata dal re a vivere il resto dei suoi giorni imprigionata in una grotta. In seguito alle profezie dell’indovino Tiresia e alle suppliche del coro, Creonte decide infine di liberarla, ma troppo tardi, perché Antigone nel frattempo si è impiccata. Questo porta al suicidio il figlio di Creonte, Emone (promesso sposo di Antigone), e poi la moglie di Creonte, Euridice,[2] lasciando Creonte solo a maledire la propria stoltezza.
Prologo (vv. 1-99): Sorge l’alba, il giorno dopo che Eteocle e Polinice, figli di Edipo, si sono dati la morte l’un l’altro nel combattere per il trono di Tebe. Antigone, sorella dei due, informa l’altra sorella Ismene che Creonte, nuovo re della città, parrebbe intenzionato a dare onoranze funebri al corpo di Eteocle, lasciando invece insepolto quello di Polinice. La cosa non è stata ancora annunciata ufficialmente, ma se così sarà, Antigone afferma che cercherà di dare comunque sepoltura a Polinice, sfidando l’ordine del re, e chiede alla sorella di aiutarla. Ismene, spaventata, si tira indietro: Antigone dovrà tentare l’impresa da sola.
Parodo (vv. 100-162): Entra il coro di anziani tebani, trionfante perché l’esercito invasore guidato da Polinice è stato sconfitto da quello tebano con a capo Eteocle, e annuncia l’imminente arrivo del nuovo re Creonte.
Primo episodio (vv. 163-331): Creonte, nel proclamarsi re di Tebe, come previsto decreta che il corpo di Polinice sia lasciato in pasto a uccelli e cani, e che chiunque si opponga a questa decisione sia punito con la morte. Arriva però una guardia che, timorosamente, informa il sovrano che qualcuno ha contravvenuto al suo ordine, gettando della sabbia sul corpo di Polinice e compiendo dunque il rito funebre. Furioso, Creonte è convinto che tale atto sia opera di cittadini contrari al suo governo, e congeda bruscamente la guardia con l’ordine di rintracciare i colpevoli.
Primo stasimo (vv. 332-375): Il coro si lancia in un elogio dell’ingegno umano: molte sono le cose mirabili al mondo, ma nessuna è come l’uomo, che ha saputo sottomettere la terra e gli animali alla propria creatività, ha organizzato la propria vita in maniera civile tramite le leggi e ha trovato la cura a molte malattie. Tuttavia l’ingegno umano può volgersi anche al male, e distruggere quelle cose che esso stesso ha costruito.
Secondo episodio (vv. 376-581): Appare nuovamente la guardia, recando con sé Antigone. Racconta che, dopo aver tolto la sabbia sopra il corpo di Polinice ed essere rimasto in attesa, ha visto la ragazza che tornava a seppellire nuovamente il corpo. Antigone non nega di aver commesso il fatto, anzi afferma che la sepoltura di un cadavere è un rito voluto dagli dei, potenze molto superiori a Creonte. Il re reagisce furiosamente rinfacciandole il mancato rispetto dei suoi ordini (soprattutto lei che è una donna) e confermando la sua condanna a morte. Antigone è sua nipote,[3] ma le questioni di Stato prevalgono sugli affetti. Appare Ismene, ora desiderosa di morire insieme alla sorella, ma Antigone rifiuta il suo appoggio, dopo che nel momento del bisogno era stata lasciata sola. Alla fine Creonte fa portare via in catene entrambe le donne (ma la sola Antigone è condannata).
Secondo stasimo (vv. 582-625): Il coro riflette in maniera sconsolata su quanto effimera sia la vita umana, colpita da sventure continue e senza un comprensibile disegno.
Terzo episodio (vv. 626-780): Appare Emone, figlio di Creonte, molto preoccupato perché Antigone è la sua promessa sposa, ma il re si mostra risoluto: Emone non potrà che sottostare al volere di suo padre. Il figlio ribatte che la popolazione parteggia per Antigone e spera che sia salvata, ma Creonte è assolutamente irremovibile, anzi minaccia il figlio di far uccidere Antigone sotto i suoi occhi. Disperato e sdegnato, Emone corre via.
Terzo stasimo (vv. 781-801): Il coro canta di Eros, la cui forza è invincibile nel rendere folli tutti coloro che ne sono colpiti.
Edipo e Antigone (Antoni Brodowski, 1828)
Quarto episodio (vv. 802-943): Antigone lamenta, insieme al coro solidale con lei, la propria triste sorte di fanciulla destinata a morire prima ancora di conoscere il matrimonio, quando appare Creonte. Egli afferma che, per non contaminarsi di un crimine odioso agli dei (uccidere una propria consanguinea), si limiterà a gettarla in una grotta, perché lei lì muoia, o viva nella sua prigione lontana da tutti. Antigone non è certo risollevata, immaginandosi sola e disperata per il resto dei suoi giorni, mentre le guardie la portano via.
Quarto stasimo (vv. 944-987): Il coro ricorda alcuni personaggi mitologici la cui sorte fu quella di essere imprigionati: Danae, Licurgo e i figli di Cleopatra.
Quinto episodio (vv. 988-1114): Appare Tiresia, indovino cieco, che si rivolge a Creonte affermando che la città è impura a causa della mancata sepoltura di Polinice (del resto anche Polinice, come Antigone, era nipote di Creonte, che quindi compiva tale sfregio verso un consanguineo). Creonte dovrebbe quindi abbandonare le proprie posizioni inflessibili. Il re accusa Tiresia di fare tali affermazioni per tornaconto personale e riafferma il proprio primato di sovrano, contro i poteri dell’indovino. Andandosene, Tiresia gli dà un ultimo avvertimento: stia attento Creonte perché le Erinni stanno per muoversi contro di lui. Il re resta profondamente turbato dalle parole dell’indovino, e discutendo con il coro degli anziani decide infine di dare sepoltura a Polinice e liberare Antigone.
Quinto stasimo (vv. 1115-1152): Il coro è contento per il ravvedimento di Creonte, e invoca il dio Bacco perché guardi benevolo alla città a lui prediletta.
Esodo (vv. 1153-1353): Arriva un messaggero, che informa il coro e la moglie di Creonte Euridice degli ultimi avvenimenti: il re, una volta seppellito Polinice, udì il lamento del figlio Emone provenire dalla grotta di Antigone. Lì vide Antigone, che si era impiccata per non voler passare il resto della sua vita imprigionata: l’ordine del re di liberarla era arrivato troppo tardi. Emone, che ne piangeva la perdita, nel vedere il re tentò di colpirlo con la spada, ma, mancatolo, rivolse l’arma contro se stesso, uccidendosi. Di fronte a queste notizie, ammutolita, Euridice rientra nel palazzo. Arriva Creonte con il cadavere di Emone, rimpiangendo la propria stoltezza che ha portato il figlio alla morte, quando si presenta un secondo messaggero, che riferisce che anche la moglie Euridice si è tolta la vita. A questo punto la rovina del re è completa: egli si definisce uccisore del figlio e della moglie e, disperato, invoca la morte anche per sé.
Commento
La legittimità della legge
Sofocle illustra in questo dramma l’eterno conflitto tra autorità e potere: in termini contemporanei, è il problema della legittimità del diritto positivo. Il contrasto tra Antigone e Creonte si riferisce infatti (almeno in parte) alla disputa tra leggi divine e leggi umane. Le prime, i cosiddetti αγραπτα νομιμα (agrapta nomima: corpus di leggi consuetudinario, ritenuto di origine divina, prerogativa del genos) sono infatti difesi da Antigone, mentre Creonte si affida al νομος (nomos, corpus delle leggi della polis). Il punto di forza del ragionamento di Antigone si fonda appunto sul sostenere che un decreto umano (appunto, il nomos) non può non rispettare una legge divina (gli agrapta nomina).[4] Al contrario, il divieto di Creonte è l’espressione di una volontà tirannica, basata sul principio del nomos despotes, ovvero della legge sovrana; egli infatti osa porre tali leggi al di sopra dell’umano e del divino.[5]
Edipo e Antigone (Johann Peter Krafft, 1809)
L’autorità di Creonte
Creonte appare dunque come un despota chiuso nelle sue idee, geloso della propria immagine e timoroso di apparire debole di fronte a una donna. Ogni tipo di disobbedienza individuale alle sue idee gli appare come un’opposizione politica. Tale personaggio, a un ateniese del V secolo a.C., doveva apparire come la tipica figura del sovrano dispotico e non illuminato, incapace di prevedere le conseguenze delle proprie azioni e, soprattutto, della sua collera.[5][6] Egli ragiona forse in maniera corretta quando afferma di dover anteporre la legge agli affetti familiari (Antigone e Polinice erano entrambi suoi nipoti),[7] ma, da lì, arriva a pretendere di contravvenire anche a leggi non scritte, sentite come divine. Soltanto alla fine Creonte riconosce i suoi errori,[8] tale ammissione però non corrisponde a una maturazione od evoluzione del personaggio, bensì solo a un riconoscimento della catastrofe cui è stato portato dal proprio comportamento.[9]
La ribellione di Antigone
In una società come quella dell’antica Grecia dove la politica (gli affari che concernono la città) sono esclusiva degli uomini, il ruolo di dissidente della giovane donna Antigone si carica di molteplici significati, ed è rimasto anche dopo millenni un esempio sorprendente di complessità e ricchezza drammaturgica. La ribellione di Antigone non riguarda infatti soltanto la sottomissione al nomos del re, ma anche il rispetto delle convenzioni sociali che vedevano la donna come sempre sottomessa e rispettosa della volontà dell’uomo (in tutta la Grecia ma ancor più ad Atene).[10] Creonte trova intollerabile l’opposizione di Antigone non solo perché si contravviene a un suo ordine, ma anche perché a farlo è una donna.[11] In questo senso, le azioni di Antigone potrebbero anche essere considerate un atto di hýbris, di tracotanza. Nel suo ribellarsi però la donna risulta essere una figura meno dirompente di altre eroine come Clitennestra[12] oMedea,[13] poiché la sua azione non è rivolta a scardinare le leggi su cui si fonda la polis, ma solo a tutelare i suoi affetti familiari.[5]
I contrasti
Oltre al già notato contrasto tra Antigone e Creonte, nell’opera vi sono ulteriori contrasti assai significativi, ad esempio quello tra Creonte ed Emone: Creonte infatti incarna la figura del anèr (il vero maschio, il vir dei Romani), mentre Emone rappresenta il ragazzo, innamorato della sua donna, che non teme di perdere la virilità mostrando i suoi sentimenti.
È inoltre riscontrabile un ulteriore contrasto tra Antigone e Ismene (sorella della protagonista): ciò è atto a evidenziare la figura eroica di Antigone, contrapponendola a quella tradizionale di Ismene, che, al contrario, rappresenta il modello femminile del suo tempo di donna debole, sottomessa all’uomo e obbediente al potere. Si può peraltro intendere Ismene anche come il contraltare debole di Antigone, ossia come colei che esprime i dubbi che sono in effetti anche di Antigone stessa, che però si risolve ad agire.[14]
Estetica
A questa tragedia s’ispirò il filosofo tedesco Georg Hegel nell’opera Estetica, per mettere in evidenza il dissidio sussistente tra legge della famiglia e legge dello Stato (in particolare lo Stato assoluto), entrambe legittimate a sussistere in quanto espressione di aggregazioni sociali consolidate. Hegel dà però un valore maggiore alla legge dello Stato, in quanto più evoluta rispetto alla più antica e quindi meno sviluppata istituzione familiare.[15]
Rappresentazioni significative
Eteocle e Polinice, morti, vengono portati via
Antigone contro i totalitarismi
Presentando lo scontro tra privato cittadino e Stato dispotico, l’Antigone è stata spesso vista, in tempi moderni, come una metafora dei diritti del singolo contro gli Stati totalitari(nonostante Sofocle nella sua opera non si schieri apertamente a favore di nessuna delle due parti). Emblematiche, a questo proposito, le rappresentazioni di Bertolt Brecht aZurigo (1948) e Salvador Espriu (1955), contro i rispettivi regimi oppressivi (la Germania nazista e la Spagna franchista) in un periodo in cui tali Stati erano caratterizzati dal totalitarismo o ne erano appena usciti. Anche il Teatro Harbin, proveniente dalla Cina, presentò a Delfi nel 1980 una versione dell’opera che metteva in guardia contro i soprusi di un’autorità ingiusta, rappresentando Antigone in maniera assolutamente positiva e Creonte come rappresentante del male.[16]
Antigone nella società
Nel 1967 a Krefeld, in Germania, l’opera venne messa in scena dal Living Theatre: da una parte un Creonte dispotico e vanaglorioso, che castra i suoi consiglieri, li riduce a cani e parla a un popolo in ginocchio; dall’altra un’Antigone, che rappresenta l’anarchia, dal viso triste e perennemente meravigliato, priva di qualsiasi forza o rigidezza morale. La messa in scena peraltro si apre con la guerra tra Tebe e Argo, tra sirene belliche e una convulsa atmosfera di bombardamento, che culmina nella reciproca uccisione di Eteocle e Polinice. Evidente era il riferimento (e la critica) alla guerra del Vietnam.[17]
Importante anche la rappresentazione diretta da Andrzej Wajda con lo Stary Teatr di Cracovia, Polonia, messa in scena anch’essa a Delfi nel 1989. In questo spettacolo, Antigone non è sola ad avanzare le proprie istanze, ma appoggiata da vari settori della società moderna: soldati polacchi vittoriosi contro i tedeschi, studenti in manifestazione, operai dei cantieri di Danzica in rivolta. A sostenere le ragioni di Creonte ci sono invece funzionari di partito. Come nel testo sofocleo, anche qui appare impossibile giungere a qualsiasi mediazione.[16]
Note
- ^ a b c Questa è la data considerata più probabile, ma non si possono escludere il 443 o il 440 a.C.
- ^ a b Personaggio da non confondersi con l’omonima Euridice moglie di Orfeo.
- ^ Creonte era fratello di Giocasta, madre di Antigone.
- ^ Antigone, vv. 453-457.
- ^ a b c Guidorizzi, pagg. 156-157.
- ^ “La città non appartiene a chi la comanda?” dice Creonte a Emone.Antigone, v. 738.
- ^ Ivi, vv. 486-490.
- ^ Ivi, vv. 1261-1265.
- ^ Di Benedetto e Medda, pag. 350.
- ^ Sarah B. Pomeroy, Donne in Atene e Roma, Einaudi, 1978. ISBN 978-88-06-22103-4
- ^ Antigone, vv. 484-485.
- ^ Vedi Agamennone di Eschilo.
- ^ Vedi Medea di Euripide.
- ^ Sofocle, Edipo re – Edipo a Colono – Antigone, pag. 362.
- ^ G. W. F. Hegel, Estetica, Einaudi, 1997. ISBN 978-88-0614387-9 Cfr. inoltre Di Benedetto e Medda, pag. 332.
- ^ a b Albini, pagg. 226-227.
- ^ Perrelli, pagg. 72-77.
Bibliografia
- Sofocle, Edipo re – Edipo a Colono – Antigone, a cura di Dario Del Corno, Oscar Mondadori, 2006. ISBN 978-88-04-34738-5.
- Giulio Guidorizzi, Letteratura greca, da Omero al secolo VI d.C., Mondadori, 2002. ISBN 978-88-88242-10-1.
- Vincenzo Di Benedetto ed Enrico Medda, La tragedia sulla scena, Einaudi, 2002. ISBN 978-88-06-16379-2.
- Umberto Albini, Nel nome di Dioniso, Garzanti, 2002. ISBN 978-88-11-67420-7.
- Franco Perrelli, I maestri della ricerca teatrale, Laterza, 2007. ISBN 978-88-420-7479-3.
- Guido Avezzù, Il mito sulla scena, Marsilio, 2003. ISBN 978-88-317-8070-4.
- Pierre Grimal, Mitologia, Garzanti, 2005. ISBN 978-88-11-50482-5.
Voci correlate
- Antigone – Tragedia di Vittorio Alfieri
- Antigone – Opera lirica di Arthur Honegger su libretto di Jean Cocteau
- Storia mitologica di Tebe
- Ciclo tebano
Altre tragedie greche del ciclo tebano
- I sette contro Tebe di Eschilo
- Edipo re di Sofocle
- Le Fenicie di Euripide
- Le Baccanti di Euripide
- Edipo a Colono di Sofocle
Altri progetti
- Wikiversità contiene informazioni sulla Letteratura greca
- Wikisource contiene il testo completo di Antigone (Sofocle)
Collegamenti esterni
- Il testo completo della tragedia nella traduzione in versi di Ettore Romagnoli
Antigone (Sofocle)/Atto unico
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- Antigone
O mia cara sorella, o dolce Ismene,
Or possiam noi ben dir che Giove intenda
(Non sazio ancor di tante doglie e morti)
Che del doppio fallir del padre Edippo
Anco noi che viviam portiam la pena.
Nulla cosa, infelice, nulla al mondo
Più di miserie o di vergogna avanza
Che nei tuoi e miei non sia caduto,
E Creonte crudel, l’impio signore,
Con nuovi bandi ci tormenta ognora.
Tu taci (ahi lassa me!), dunque non sai
L’alto disnor che dei nimici nostri
I nostri amici con tal forza ingombra?
- Ismene
Amara o dolce, ancor nulla novella,
Antigone, agli orecchi miei pervenne
D’i nostri amici, poscia ch’in quel punto
Porgendo l’uno all’altro acerba morte
Noi due de’ due fratei restammo prive;
E poi che rotto il gran campo nimico
Fu in quella notte, non ho cosa udita
Che più lieta mi faccia, o più dolente.
- Antigone
Tosto adunque il saprai, ché questo solo
Fe’ ch’io ti trassi qua fuor della porta,
Acciò che senz’altrui tu sola udissi.
- Ismene
Deh che fia, lassa, poi che gli occhie ’l volto
Mostri dipinti di soverchio sdegno,
E parmi il ragionar doglioso e grave?
- Antigone
Non ha il fero Creonte ancor sepolto
L’uno e l’altro fratel, ma in terra nudo
L’un de’ due vuol lasciar di fera in guisa.
È nel grembo a Pluton solo Eteocle
Pur con dovuto onor là giù disceso,
E ’l corpo ch’ei lasciò coperto vide.
Ma ’l miser Polinice in terra giace
Nudo, abietto, e scoperto; et ha bandito
Ch’alcun de’ cittadin non prenda ardire
Di sotterrarlo o di pianger sua morte,
Ma senza pianto altrui, senza sepolcro,
Di can, d’augelli, e di selvagge fere
Vuol che restin tra noi dogliosa preda
Quelle membra regai d’Edippo uscite.
Or se noi guarderem quel ch’è seguito,
Vedremo ogni comando, ogni minaccia,
Ch’a te, sorella, e me si drizzon sole;
A me dico anco, che pur vivo ancora.
E per far più palesi i suoi pensieri
Vuol che la pena sia di chi l’aiuti
L’esser vivo tra’ suoi sotterra posto;
Né gli è bastato pur bandirlo intorno,
Ch’egli stesso vien fuori a dirlo a tutti.
Qui siam, cara sorella, et è ben tempo
Che ne dimostri omai se del tuo sangue
Porti l’alto valore, o se viltade
Dentr’a sì nobil petto albergo truova.
- Ismene
Deh che, semplice,parli? e ’n che potrei
Giovargli, quando ben disposta fussi
Di trapassar le leggi e sotterrarlo,
S’e vero appunto quel che m’hai narrato?
- Antigone
Pensa pur se tu vuoi porgermi aiuto,
- Ismene
O che pericol greve! ov’hai la mente?
- Antigone
E ’l corpo morto alzar con questa mano.
- Ismene
Speri tu seppellirlo e che no ’l senta
Questa città nimica e t’interrompa?
- Antigone
Se venir non vuoi meco, io sola voglio
Al tuo fratello e mio sepolcro dare,
Né cosa curo ch’avvenir mi possa.
- Ismene
Contr’alla voglia, ahi lassa, di Creonte ?
- Antigone
A lui non lice il mio dever vietarmi.
- Ismene
Torniti a mente, ohimè, sorella cara,
Come già visto il suo peccato orrendo
Il padre nostro con sua propria mano
Ambe gli occhi si trasse, e poi nimico
Al popol fatto, in sì misera morte
Pien di vergogna chiuse i giorni suoi;
Poscia colei che fu sua donna e madre
(Come tu sai) poi che conobbe il figlio,
Figlio e marito, in duro laccio avvolta
Pur sospinta dal duol se stessa ancise.
Il terzo acerbo danno or n’è presente,
Come veggiam, ch’ancor vermiglia è l’erba
Del sangue, ohimè, dei nostri due frategli;
Ch’insieme irati l’un ver l’altro mosse
La man fraterna, et un sol punto vide
L’uno e l’altro cadere, et egual fato
All’uno e l’altro acerbo fin condusse.
Così noi sole alla fortuna in preda,
Senza conforto alcun di padre o madre,
Senza frategli, ohimè, rimase siamo.
Or pensa adunque ben quanta dogliosa
Morte n’aspetti, se vorrem con forza
Le leggi trapassar, l’alta potenza
E i fier comandi del novel signore;
Ma ne convien pensar che già create
Femine fummo, e che non siam bastanti,
Debili e ’nferme, a contrastar con l’uomo;
E poi che ’l ciel, già di regine e donne,
Serve n’ha fatte, questo e peggio ancora
Tacitamente ne convien soffrire.
Ond’io per me perdon chiedendo a quegli
Che giù son morti, scuserò ’l mio fallo,
Poi che mi sforza chi governa e regge,
Ché stimar non si dee saggio colui
Che quel ch’esser non puote indarno tenta.
- Antigone
Io non ti vo’ pregar, perciò che quando
Pur consentissi non saresti mai
Del tutto pronta, ond’io dolor n’avrei,
E molto meglio all’onorate imprese
l’esser sol, ch’aver compagni i quali
O contrario voler tardi, o timore.
Or sia saggia a tuo senno, io pur son certa
Di sotterrarlo, e vie più bel mi fia,
Poi gli avrò fatto onor, morta giacere
Con l’amico fratello amica insieme;
Ch’io veggio ben quanto più lungo è ’l tempo
Di star fra i morti, onde convien piacere
Più tosto a lor ch’a chi nel mondo vive;
E s’a te par, di quel che ’l ciel fa stima
Tien poca cura e resta, io v’andrò sola.
- Ismene
Di questo non tengo io già poca cura,
Ma ’l mio nulla sperar mi tira indietro.
- Antigone
Rimanti adunque; et io così m’invio
A procacciar sepolcro al mio fratello.
- Ismene
Oh che freddo timor m’agghiaccia il core!
- Antigone
Or non mi spaventar, pensa a te sola.
- Ismene
Non aprir con altrui cotal pensiero,
Ma tienlo ascoso; et io lo taccio ancora.
- Antigone
Parlane pur, ch’a me vie più nimica
Sarai tacendo, che se ’l narri a molti,
Ché l’opre pie non den tenersi ascose.
- Ismene
Come nel proprio mal t’allegri e godi!
- Antigone
Anzi conosco ben quanto far deggio
Volendo a quei piacer ch’io soli apprezzo.
- Ismene
Pur di nuovo il dirò: tu tenti invano.
- Antigone
Quando più non potrò, starommi in posa.
- Ismene
Non si convien l’incominciar quell’opra
Che poi s’abbia a lasciar non giunta a fine.
- Antigone
Taci, s’esser non vuoi nimica espressa
D’una sorella tua, nimica ancora
D’un fratel morto, e lascia in pace omai
Il mio stolto consiglio, e me soffrire
La greve pena che n’aspetta, forse;
Bench’io non credo mai ch’altro tormento
Possa sentir più greve un cor gentile
Che non morir con fama eterna e lode.
- Ismene
S’a te pur così par, segui ’l cammino,
E sappia questo sol, che bench’amica
Sia drittamente ai cari amici nostri,
Poco sei saggia in sì dubbiosa impresa.
- Coro
Sommo specchio del ciel, del mondo duce,
O del giorno occhio altero,
Ch’ogni animal di tua chiarezza ingombre,
Oggi il bel volto tuo men che mai fero
Ne mostri, e con tua luce
Il tenebroso duol dal petto sgombre;
Omai cenere et ombre
Son fatti quei ch’a noi dar pena e morte
Voleano, et alla patria alta ruina.
O giustizia divina,
Pur vivi ancora, e senz’altr’arme e scorte
Le sette antiche porte
Libere stanno e sciolte;
Né più tema n’assale: o santa pace,
Ben cieche menti e stolte
Son quelle a cui la tua virtù non piace!
Il cor n’avvinse, ohimè, che freddo gielo,
Quando di ferro e d’ira
Vedemmo armate le nimiche squadre!
Con men tempesta il mar trascorre e gira
Borea al nivoso cielo
Che quegli allor la nostra patria e madre;
L’aer d’oscure et adre
Nubi cinto parea, tal polve in alto
L’esercito movea correndo intorno.
Tu, Sole, a mezzo ’l giorno
Impallidisti al dispietato assalto,
E poi che ’l verde smalto
Dell’uman sangue tinto
Già vermiglio vedesti, i raggi tuoi,
Da sdegno e pietà vinto,
Lunga poscia stagion negasti a noi.
Di Tebe invitta le superbe mura,
Che già ’l dotto Anfione
Construsse al suon della sua dolce cetra,
Pur dubbiose talor dritta cagione
Avìen d’alta paura;
Né pur ben ferma in lor si sentia pietra.
Non altrimenti impetra
Chi morte aspetta e ’l soccorso ha lontano,
Che ’l popol dentro ch’aspra fin temea:
Ciascuna porta avea
Contr’a sé armato un greco capitano,
Che l’un fero germano
Tratto da giusto sdegno
Contr’all’altro menò, ch’essendo erede
Di par del patrio regno,
Di vendicar cercò la rotta fede.
Ma con dritt’occhio risguardando in terra
Giove benigno e pio
L’alta innocenza nostra, e i falli altrui,
Ne prestò forza, e ’l buon sommerse il rio,
Ond’or dell’aspra guerra
Ne riportiam le ricche spoglie a lui:
I sette duci, a cui
Le sette porte date a romper foro,
Giacer veggiam dalle man nostre ancisi;
Gli Dei sempre derisi
Da quei mostraron poi le forze loro,
E a quel che fra costoro
D’ira e superbia mosso
Più ’l cielo offese d’empio orgoglio pieno,
Da folgore percosso,
Impose morte al fin perpetuo freno.
Voi miseri Eteocle e Polinice,
Fratei di sdegno armati,
Cader vedemmo d’ugual morte allora,
Ahi lassi, e dal destin fero menati
Al scontro agro e ’nfelice
Ch’ambedue trasse, ohimè, di vita fuora;
In un colpo, in un’ora,
Morte vi deste: o pio fraterno amore,
Deh com’oggi di te ’l mondo si spoglia!
E tu, cieca empia voglia
Del dominar, come n’avvinci il core!
L’un mentre ’l tolto onore
Di racquistar s’ingegna,
Contr’alla patria muove ingiuste offese,
E l’altro, mentre regna
Contra ’l dever, la patria e noi difese.
E se gli è ver che ’l ciel con dritta lance
Porga ’l premio e la pena,
Ben fu d’ambedue questi il fallo uguale:
Fu ’l viver d’essi un breve sogno appena,
E lor mondane ciance
Passor più tosto assai che vento o strale;
Or noi, che ’l fil fatale
Serviamo intero a vie più lunga etate,
Rendianne grazia al padre Bacco e Giove.
Ma ’l passo ver noi muove
Creonte, il nuovo re della cittate:
Nuove altre cose nate
Saran, ch’entro al cor preme
Alti pensier, e bandir fe’ pur dianzi
Che noi qui tutti insieme
Venissimo in quest’ora a lui dinanzi.
- Creonte
O cari cittadin, poscia che ’l cielo
N’ha combattuto assai, l’alma cittade
D’ogni tempesta al fin salva ne rende:
Io vi ho fatti chiamar soli in disparte
Da tutti gli altri, perch’io tengo a mente
Quant’onor, quanta fede, e quant’amore
Già fusse il vostro ver l’antico Laio
Mentre regnava, e ’n verso Edippo ancora
Suo successore, il qual poi sendo morto
E rimasi i figliuoi, so con quant’arte
Gli scorgeste mai sempre al ben comune;
Or poi che doppia morte in un sol giorno
Ambe questi n’oppresse, in ambe sendo
La man vermiglia del fraterno sangue,
A me (mancati lor) ragione apporta
L’esser del regno e dell’impero erede.
E perché mal si puote in uomo alcuno
Scerner dentro i pensier, la mente e ’l core
Finch’ei con l’opre sue, sendo preposto
A magistrati o leggi, altrui no ’l mostra,
Dico ch’io stimai sempre iniquo et empio
Qualunque regga impero, e che non porga
I buon consigli aperti, ma per tema
Gli tace, e il suo parlar rivolge altrove;
E chi nel mondo alcuna cosa ha cara
Più della patria, o tenga amico alcuno
Che nimico le sia, chiamo ben questo
Scelerato e crudel più ch’altro assai:
Ond’io vi giuro per quel Giove eterno
Che ’l tutto vede che timor già mai
Non mi faria tacer, vedend’io cosa
Ch’al nostro comun ben contraria avvegna,
Né stimar posso amico chi nimico
Sia della patria, perch’io so ben come
Questa sola ne salva, e mentre questa
S’invia per buon cammin, sempre si vede
Crescer con sicurtade amici insieme.
Con queste leggi adunque e ’n questi modi
M’ingegnerò d’ornar la patria e voi.
Or di quei due fratei d’Edippo nati
Fatt’ho bandir nella città d’intorno,
Che con quanto più onor si possa o deggia
Porgere a quei che con lodata morte
Parton del mondo, sia sepolcro dato
Ad Eteocle sol, sì come a quello
Che con sommo valor la propria vita
Sprezzò, la patria difendendo e noi.
Ma ’l suo fratel (di Polinice dico),
Il qual sendo rubel nimico venne
Con tal furor contr’agli Dei paterni,
Contr’alla patria armato, e ’n forza avere
Volea questa città, volea saziare
L’empia sua voglia ingorda del pio sangue
De’ suoi congiunti, e voi menar legati
A servizio crudel di gente iniqua,
Costui non vo’ ch’alcun si prenda ardire
Di sotterrar, né la sua morte pianga,
Ma secondo i suoi merti abietto e nudo
Resti a i cani e gli augei, ch’ognor si veggia
Lacerar e macchiar di polve e sangue.
Tale è ’l consiglio mio, né da me mai
Avranno premio ugual gl’ingiusti a quegli
Ch’io porgo ai giusti, ma chi cerca il bene
Di questa patria, da me sempre aspetti
E vivendo e morendo onore e pregio.
- Coro
S’a voi piace così, Creonte invitto,
Convien ch’anch’a noi piaccia, ch’a voi solo
È lecito il dispor così dei morti
Come di noi che qui viviamo ancora.
- Creonte
Gitene or dunque dove ’l morto giace
A far che ’l mio voler non torni vano.
- Coro
Da più giovini spalle è questo incarco.
- Creonte
Altri son là che vi saranno aita.
- Coro
Or che bisogna dar tal cura a tanti ?
- Creonte
Per non fidarla a chi non abbia fede.
- Coro
Qual sì stolto sarà che cerchi morte ?
- Creonte
La pena saria tal; ma spesso avviene
Che ’l soverchio sperar d’assai guadagno
Conduce l’uom ch’ei non si sente al fine.
- Messo
Io non dirò, signor, d’esser qui corso
Tanto veloce ch’io non possa ancora
Per molto affanno ben gli spirti accorre,
Per ciò ch’a dirne il ver, mi son posato
Spesse fiate, e meco entr’alla mente
Ho combattuto assai, tal che più volte
Volto mi son per ritornarmi indietro.
Dicea meco un pensier: lasso, che fai ?
Ove drizzi ora il piè ? stolto, a chi porti
Con l’ambasciata tua pena sì greve ?
Or non andar più in là; ma se d’altronde
Per altro messo il risaprà Creonte,
Non ne debbi aspettar vergogna e danno ?
E fra me disputando (ancor ch’io fussi
A camminar veloce) in tal maniera
La via breve per sé m’è stata lunga,
E ’n somma a voi venir disposi al tutto.
Or benché nulla v’abbia da dir certo
E nulla lieto, pur dirò quel solo
Ch’io posso dirvi, e so ch’altro non deggio
Di bene o mal sentir che quello stesso
Ch’i fati destinar nel dì ch’io nacqui.
- Creonte
Che vuoi tu dir ond’hai tanto timore ?
- Messo
Primamente dirò quel che seguito
Non fu per colpa mia, né so per cui,
Ch’io vi prometto ben che premio alcuno
Non m’aria fatto far sì greve errore.
- Creonte
Or di’ tosto oramai, che cosa è questa ?
- Messo
Soglion l’avverse nuove a chi le porta
Porger sempre nel dir tardezza e tema.
- Creonte
Dillo omai tosto; e ti nascondi e fuggi.
- Messo
Io ’l dirò pure: un nuovamente è gito
Ad onorar quel morto, e netto e puro
L’ha sotterra riposto in poca fossa.
- Creonte
Or che mi narri tu ? chi fu costui ?
- Messo
Io no ’l so, ma so ben ch’ivi non pare
Forma alcuna di piè, di vanga, o marra,
Ma sì la terra ugual si mostra intorno
Che pensar non si può di chi fuss’opra,
Tal che da prima al ritornar del giorno,
Quando scorgemmo il ver, gran maraviglia
Parve a noi tutti, poi che segno alcuno
Non si vedea, né fonda era la fossa,
Ma leggiermente sol di polve e terra
Era coperto, come da chi voglia
Purgar se stesso dal peccato orrendo
Di quei che privon di sepolcro i morti.
Non di fera o di can l’orma si vede
Che raspando coi piè coperto l’abbia.
Nacquer tra noi parole aspre e pungenti,
Ché l’una guardia con minacce altere
Riprendea l’altra, tal che fummo in forse
Di cominciar tra noi battaglia acerba,
Perché ciascun di noi di colpa uguale
Venne in sospetto, e nessun certo n’era,
Anzi diceva ogni uom non esser quello.
Voleva pur ciascun prender con mano
Il ferro ardente, e correr sopra il foco
Chiamando testimon gli Dei che fallo
Commesso non avea, né sapeva anco
Di chi ciò fusse stata opra o consiglio.
Disse uno al fin, che fe’ per tema a tutti
Chinar la fronte a terra, e contra dire
Non seppe alcun, né miglior modo usare:
Il suo dir fu che tutto quanto appunto
Si devesse scoprirvi, e che per nulla
Non si tenesse a voi la nuova ascosa.
Fu conchiuso il suo detto, et io per sorte
Tratto fui, lasso, a sì lieta novella.
Qui son contr’a mia voglia, e so che voi
Contr’al vostro voler m’udite ancora,
Ché nessun vede volentier quel messo
Che gli viene a portar novelle avverse.
- Coro
Or sappiate, signor, che ’l cor mi dice
Che tutto quel ch’udite non sia stato
Senza certo voler degli alti Dei.
- Creonte
Deh, non mi far parlando ira maggiore,
Poi ch’imbiancando ’l pel ti scema il senno:
Dunque vuoi, folle, dir che ’l cielo ha cura
D’uno impio e fero ? e che là su dispiaccia
Che secondo ’l fallir la pena porte ?
Voi pur vedeste, ohimè, che armato venne
Contr’al natio terren per arder tutti
De’ suoi paterni Dei gli ornati templi
Con l’immagin sacrate, e le lor leggi,
La lor cittade: e quando mai vedeste
Il ciel cura tener di sì ria gente ?
Certo non mai, ma non piacendo a voi
Questo consiglio, me n’avete ognora
Biasmato assai, né potete anco il collo
Sì volentier piegar sotto tal giogo
Ch’i miei comandi con amor serviate.
Ond’io ben certo so ch’alcuni avendo
Qualche premio da voi mi fanno oltraggio.
Ah nulla cosa più malvagia al mondo
Mai fu che l’oro: questo le cittadi
Rovina in tutto, e questo scaccia altrui
Dal proprio albergo, e questo inchina al male
Le buone menti; ei sol gl’inganni mostra,
Gl’impi spergiuri, e ’n somma tra i mortali
Solo è d’ogni opra ria ferma radice.
Ma chi mosso per lui commette un fallo,
Quando il penter non val, languendo vede
Ch’ogni peccato al fin sua pena aspetta.
Ma per quel Giove ch’oggi onoro e colo
(Com’ogni uom sa) vi giuro che s’in breve
Ritrovando quel ch’ha sepolto il morto
Alla presenza mia no ’l conducete,
Non sarò sazio sol di darvi morte,
Ma con mille tormenti, strazi, e scempi
A tal vi condurrò ch’a viva forza
Manifestiate a me l’oltraggio fatto:
Perché meglio intendiate e come e d’onde
Si dee premio cercar, e tutti poscia
Serviate a mente ch’amar non si deve
Sempre il guadagno, e che più son coloro
Che dei peccati lor riporton pena,
Che gli altri che ne son gioiosi e lieti.
- Messo
Deggio io dir altro, o mi ritorno indietro ?
- Creonte
Va’, che fortuna ria ti faccia scorta.
- Messo
Basta a me ch’io non ho commesso fallo.
- Creonte
Anzi avrai guadagnato argento e morte,
Né voglio altro più dirti, e pur t’affermo
Che s’io non veggio qui legati avanti
Quei ch’han fallito, allor saprete come
I malvagi guadagni arrecon doglia.
- Messo
Questo è ben vero; or se costui ch’è ’n fallo
Si truova o no (che ’l tutto fa la sorte),
Nessun sarà mai più ch’in queste parti
Venir mi veggia, e questa volta ancora
Fuor d’ogni opinion, fuor d’ogni spene,
Salvo (e ringrazio Dio) mi torno indietro.
- Coro
Tra quanti altri animali
Creò natura mai sott’alcun clima,
Nessun (se ben s’estima)
Si truova più dell’uom noioso e rio:
Questo del suo natio
Terren non ben contento ardito varca
Il mar con fragil barca,
Cercando a sé perigli, ad altrui mali;
Alla terra immortali
Fatiche porge, e crudelmente in prima
Con l’aratro e coi buoi la riga e fende,
Poi la rivolge e stende
Con dura zappa, e adegua ogni alta cima,
E così d’anno in anno avaro viene
A darle pene alle passate uguali.
Questo ai volanti augelli
Pon mille insidie ognor con visco e ragne,
Sì ch’in boschi o campagne
Non giova al loro scampo aprir ben l’ale;
Al fer leon non vale
L’artiglio e ’l dente contr’uman disegno,
Ch’or laccio, or nuovo ingegno
Ritien quei più selvaggi e più rebelli;
Benché correnti e snelli,
Fuggir non sanno i cervi, e spesso piagne
La leggier damma negli ascosi inganni;
Schivar non ponno i danni
Gli umidi pesci u’ corra l’acqua o stagne,
Ché l’annodata rete (avvegna l’onda
A noi gli asconda) tragge a morte quelli.
Questo il possente toro
Sott’aspro giogo alle lunghe opre mena,
E la superbia affrena
Del feroce caval con sella e morso;
Dell’alte stelle il corso
Di qua giù cerca e i loro effetti impara:
Qual luce è in ciel più cara,
Qual più nimica al nostro uman lavoro,
Perch’Africo, Austro, e Coro
Empian di pioggia ognor l’aria serena,
E Borea et Euro la rivolga altrove.
Fabbrica alberghi dove
S’asconda allor che folgora e balena,
Et ai venti, alle piogge, al caldo, al gielo
Tempra ivi ’l cielo uguale al secol d’oro.
In somma il tutto vede
Né si cela al suo ingegno alcuna parte,
Fuor che trovar nuov’arte
Da schivar morte ch’a null’uom perdona.
Questo intelletto sprona
Talora al male, al ben talora altrui,
Ma sol saggio è colui
Ch’ama gli Dei, la patria, e l’alma fede,
E quanto altro possiede
Come fral possession da sé diparte,
E gir lo lassa alla Fortuna in gioco;
Ma chi prezzando poco
Il bene, in cure vil gli anni comparte,
Deh come giugne a notte innanzi sera !
Deh com’è fera ch’esser uom si crede !
Ohimè, s’io ben discerno,
A me par di lontan che questa sia
Antigone che vien presa e legata:
Ahi miserella nata
Del miser padre Edippo, ahi sorte ria !
Forse essendo colei ch’ei disse dianzi
Or viene innanzi al re per pianto eterno.
- Messo
Questa è colei che ricopriva il morto,
Costei trovammo; ma dov’è Creonte ?
- Coro
Eccol che verso noi ritorna appunto.
- Creonte
Hai tu trovato ancor chi fusse quello ?
- Messo
Signor, nessuna cosa tra i mortali
Si può certa affermar, ché spesso avviene
Ch’altri col creder suo se stesso inganna.
Di mai più non tornar davanti a voi
Giurato avea, sì sbigottito e vinto
Mi diparti’ dalle minacce vostre,
Ma null’altro piacer s’agguaglia a quello
Che fuor d’ogni speranza incontra altrui.
Bench’io giurassi allor, tornato sono
Per menar qui costei; com’a voi piace
Riprendete e punite, ch’io mi truovo
D’ogni sospetto omai purgato in tutto.
- Creonte
Or come e d’onde vien costei ch’io veggio ?
- Messo
Costei coperse il morto, indi la meno.
- Creonte
Sai tu ben certo quel ch’affermi e narri ?
- Messo
Io stesso la trovai che sotterrava
Quel morto istesso che bandito avete:
Or dico io cose manifeste e conte ?
- Creonte
Come il vedesti tu? come fu presa?
- Messo
Quando da voi scacciato io ritornai
Portando a’ miei compagni le minacce,
Con gran timor levammo via la terra
Ch’era disopra ’l corpo, e quell’umore
Di pianto o d’altro rasciugammo intorno;
Poi ci ascondemmo dopo un certo sasso
Fuggendo in parte ove non porte il vento
L’odor del morto, e lì di noi ciascuno
Con pungenti parole riprendea
Chi ben non fusse alla sua vista intento.
Così ci stemmo alquanto, e poi che ’l sole
Fu nel mezzo del ciel, da quella parte
Onde soffia Aquilon, rabbiosa venne
Crudel tempesta, che di polve e nubi
Coperse il mondo, e ’n su ’l più bel del giorno
Menò la notte, e con orror le chiome
Scotea dell’alte selve, ond’altra cosa
Non si sentia né si scorgea d’appresso,
Tal ch’appena ciascun chiudendo ’l volto
Potea l’aspro furor dagli occhi torre.
Ma poi che l’aria e ’l ciel nel primo stato
Tranquilli ritornar, n’apparse fuore
Questa fanciulla qui, ch’amare strida
Sopra il morto facea, come talora
Suol quell’augel che ritornando al nido
Non vi ritruova i cari figli suoi:
Con pietoso abbracciar, con dolci baci
Spargeva alti sospiri, e doglia e guerra
Pregava a chi l’avea condotto a tale.
Poscia empiendo con man d’arida terra
Un vaso ch’ivi avea, versando quella
Ne coronò tre volte il morto tutto.
Il che vedendo noi scendemmo allora
Ratti ver lei, che senza tema alcuna
E non turbata in volto a noi s’offerse,
E del passato fallo e del presente
Mentr’io la riprendea nulla negava,
E congiunto trovai l’assenzio e ’l mele,
Però che ’l purgar noi da doglia acerba
Dolce mi fu, ma poi condurre in doglia
I cari signor miei mi parve amaro;
Pur ogni cosa alfin men dura viene
Che ’l sentirsi vicin l’estremo giorno.
- Creonte
Com’esser puote, o ciel, che questo sia ?
Dimmi or tu, stolta, che sì ardita ascolti,
Confessi quel ch’ei disse, o neghi ’l vero ?
- Antigone
Confesso sì, perché negar lo deggio ?
- Creonte
Tu prendi quel cammin che più t’aggrada,
Che d’ogni colpa libero ti mando.
Tu con brevi parole dimmi ancora:
Sapevi tu d’oprar contra ’l mio bando ?
- Antigone
Sapevo sì, ché lo sapea ciascuno.
- Creonte
Ardisti adunque a trapassar le leggi ?
- Antigone
Non fu Giove colui che misse il bando,
Né la pietà che giù fra i morti alberga,
Da cui venner tai leggi a noi mortali;
Non pensai già che sendo voi mortale
Di tanta forza un vostro detto fusse
Che superasse i santi alti decreti
Che fermaron gli Dei qua giù nel mondo.
Non nacquer tra i mortali oggi né ieri
Le sante usanze ch’han sì lunga vita
Che non si può saper l’età di quelle,
Sì che d’un uom temendo le minacce
Non devea già lassar d’esser pietosa
Verso gli Dei, quantunque io veggia aperta
Pena crudel secondo i bandi vostri.
Ma poi, ch’esser potrà ? tutto è guadagno
Il correr anzi tempo a morte acerba:
Ché chi tal servitù morendo fugge
Non dee dolce com’io chiamar la morte ?
A me dunque non fia la morte doglia,
Ma se ’l fratel, che d’un medesmo ventre
Uscì d’ond’io, senza sepolcro in terra
Sprezzato avessi, a me ben doglia eterna
Stata questa saria maggior che morte:
E chi di tal pensier mi tiene stolta,
Ben lo potrei chiamar vile e crudele.
- Coro
Ben si mostra in costei l’alta durezza
Del duro padre, che per nulla vuole
Rendersi vinta alla Fortuna avversa.
- Creonte
Quel van pensier che di soverchio è duro,
Più d’ogni altro si rompe, e sempre avviene
Che ’l ferro quant’ha più gagliarda tempra
Vie più si spezza, e spesse volte ho visto
Un feroce corsier con picciol freno
Da mezzo ’l corso suo rivolto indietro.
Non si conviene aver superbia a quello
Che vive servo verso un suo signore.
Costei le leggi trapassando in prima,
Cominciò farne ingiuria; or che se stessa
Dell’opre rie pregiando me dispregia,
Aggiunge al primo un second’altro oltraggio,
Tal che se senza pena oggi ’l mio impero
Lasso calcar così, ben si può dire
Ch’io sia vil servo, et ella alta regina.
Ma se non pur di mia sorella figlia
Ma più congiunta fusse, anzi se fusse
Di Giove uscita, non porria scampare
Da morte acerba; e la sorella ancora
Vorrò punir, ch’io penso certo ch’ella
Di seppellir colui desse ’l consiglio.
Chiamala fuor, che pur la vidi dianzi
Là entro star tutta rabbiosa e muta
Che di se stessa fuor sembrava in vista:
In mille modi e più di fuor si scerne
La mente di colui che dentro pensa
Ascosamente oprar peccati orrendi.
Come folle è da dir chi lode e pregio
Vuol riportar d’un suo commesso errore !
- Antigone
Ch’altro volete voi che la mia morte ?
- Creonte
Null’altro cerco, ché ragione il vuole.
- Antigone
A che dunque tardar ? ch’omai veggiamo
Che le parole vostre aspre e moleste
Mi saran sempre omai, ma parimente
Anch’a voi son le mie noiose e gravi.
E d’onde aver più gloriosa morte
Potea già mai, che nel cercar sepolcro
Al fratel nudo ? e se timor non lega
La lingua di costor, diran quel ch’io.
Ma come che felice in molte parti
Sembri il tiranno, in ciò beato appare,
Che può far sempre e dir quant’a lui piace,
Né si sente biasmar com’altri suole.
- Creonte
Sei tu tra tanti a veder questo sola ?
- Antigone
Ogni altro ’l vede ancor, ma teme e tace.
- Creonte
L’ardir più di costor non t’è vergogna ?
- Antigone
L’onorare i fratei non merta biasmo.
- Creonte
Non era tuo fratel quel ch’egli ancise ?
- Antigone
D’un padre uscimmo e della stessa madre.
- Creonte
Perch’adunque sei grata a quel crudele ?
- Antigone
Non si può dir crudel poi ch’uno è morto.
- Creonte
Non cancella il morir gli altrui peccati.
- Antigone
Or non fur questi due fratelli insieme ?
- Creonte
L’un nimico alla patria, e l’altro amico.
- Antigone
Pur vuol Pluton che si sotterri un morto.
- Creonte
Non con equale onor l’ingiusto e ’l giusto.
- Antigone
Che viltade è punir chi morto giace ?
- Creonte
E dopo morte ancor s’odia il nimico.
- Antigone
Per ambe amar non per odiargli nacqui.
- Creonte
Andrai dunque ad amarlo nell’inferno,
Ché qui non l’amerai sotto ’l mio impero.
- Coro
Ecco Ismene qua fuor che ’l volto bagna
Per la sorella sua d’amaro pianto,
Gli occhi coperti d’una nebbia oscura
Le guance e ’l bel colore
Macchion di tristo umore.
- Creonte
O vipera crudel, che ’l proprio albergo
Ascosamente ognor m’attossicavi,
Né stolto m’accorgea nutrirmi appresso
Due pesti, e due ruine del mio regno:
Dimmi, confessi tu d’aver saputo
Del seppellir quel morto, o vuoi negarlo ?
- Ismene
Ciò che fece costei feci ancor io;
E seppi ’l tutto, e fui presente all’opra.
- Antigone
Cessin gli Dei ch’io t’acconsenta questo,
Ch’a sì lodato ben lontana fusti.
- Ismene
Deh fammi degna in sì misera sorte
D’esser compagna de’ tuoi duri affanni.
- Antigone
Plutone e ’l mio fratel mi scorsen sola,
Come sempre spregiai quei falsi amici
Che pur sono in parole amici altrui.
- Ismene
Deh non mi dinegar, sorella cara,
Il morir teco e l’onorar quel morto.
- Antigone
Meco non morrai tu, né tuo farai
Quel ch’è d’altrui, ch’è mia la morte e l’opra.
- Ismene
E senza te che mi fia dolce in vita ?
- Antigone
Dimandane il signor qui tuo Creonte.
- Ismene
Perché senza cagion m’offendi e pungi ?
- Antigone
A me ne pesa e duol d’averlo a dirti.
- Ismene
Deh dimmi, in che potrei giovarti ancora ?
- Antigone
In salvar te, perché ’l tuo scampo bramo.
- Ismene
Deggio, lassa, perciò non morir teco ?
- Antigone
Tu la vita cercasti, et io la morte.
- Ismene
Io pur del nostro mal presaga fui.
- Antigone
Costui te saggia, e questi me diranno.
- Ismene
Pur fu d’ambe due noi comune il fallo.
- Antigone
Non ti doler che vivi; e queste membra
Son morte tal che già tra i morti stanno.
- Creonte
L’una di queste due conosco stolta
Novellamente, e l’altra il dì che nacque.
- Ismene
La mente di ciascun, quantunque saggio,
Nell’ira sempre si travaglia alquanto,
Ma sappiate, signor, ch’ogni aspro frutto
Alfin matura, il tempo cangia e spegne
Ogni altero desir ch’a ciò ne spinge.
- Creonte
Non s’è spento anco in te, ch’esser vorresti
Compagna stata di chi male adopra.
- Ismene
S’io son senza costei, che fo nel mondo ?
- Creonte
Allor lo sentirai che morta fia.
- Ismene
La sposa anciderai d’un tuo figliuolo ?
- Creonte
Molt’altre ce ne fia da dargli spose.
- Ismene
Ma non come costei chiara e gentile.
- Creonte
Non cerca il mio figliuol sì fatte donne.
- Antigone
Deh perché non sei qui, mio caro Emone !
- Ismene
Vorrai però privar di questa il figlio?
- Creonte
Omai le nozze sue tra i morti fieno.
- Ismene
Adunque ella morrà ? Dio no ’l consenta.
- Creonte
Certo ch’ella morrà, ma non più indugio:
Menate queste qui, serve, là dentro,
E da qui innanzi le convien guardare
Con vista aguta, e non lasciarle sole,
Che gli arditi anco fuggon quando appresso
Senton venir la morte, e cercon vita.
- Coro
Quanto colui beato
Chiamar se stesso deve
Ch’in chiara e dolce età qua giù dimora,
Ma cui dal cielo è dato
Viver sott’aspro e greve
Tempo, ben con ragion si lagna e plora:
Costui vede ad ognora
Non sol sé posto in doglia,
Ma i cari figli suoi,
La pia consorte, e poi,
Lasso, dei fidi amici ancor si spoglia,
Né al miser cosa alcuna
Non calcata riman da ria fortuna.
Qual suole atra tempesta
Che ’l mar d’intorno turba,
Cagion che l’onda e ’l ciel si duole e piange,
Ch’in quella parte e ’n questa
Rompe i liti, e conturba
L’arene, i pesci ancide, i legni frange,
Tal quando fere et ange
Un re di Giove l’ira,
Forz’è che poi si stenda
Più oltra sì ch’offenda
Mill’altri senza colpa, e se sospira
Tal volta il capo solo,
I membri uguale a lui senton suo duolo.
Ecco, quando ’l ciel volse
Della sua colpa ria
Versar solo in Edippo acerba pena,
Se stessa al mondo tolse
Quella sposa empia e pia,
Di vergogna, di sdegno, e di duol piena,
Né corso è l’anno appena,
Ch’i figli irati insieme
Si dier l’un l’altro morte;
Or con più acerba sorte
Veggio la figlia giunta all’ore estreme,
Che ben gira oggi il sole
L’ultimo giorno a quest’antica prole.
Ahi troppo, ahi troppo ardita
Fanciulla ! ahi mente inferma,
Ben della vita tua poco ti cale !
Ma a quel che l’infinita
Possanza in alto afferma
Nulla forza fra noi né ingegno vale,
Ché ’l ben fa parer male
A colui sempre il cielo
Cui destinato ha in terra
Morte, o perpetua guerra,
Tal gli occhi del pensiero affosca un velo,
E quanto pensa o face
Gli è danno, e ’l suo sperar torna fallace.
Ma tu, benigno Giove,
Ch’innanzi hai sempre mai
Il presente, il preterito, il futuro,
Deh se pietà ti muove
Di noi mortali, omai
Rivolgi gli occhi al caso acerbo e duro:
Fa’ che ’l sepolcro oscuro
In questa età non chiuda
La giovinetta acerba,
Che se ben fu superba
Contr’al re nostro, e di dolcezza ignuda,
Pensa in femminil core
Quanto possa pietà, sdegno e dolore.
Ecco qua ’l figlio vostro Emon che mostra
Vista irata e dogliosa,
Fors’a cagion d’Antigone sua sposa.
- Creonte
Tosto ’l saprò: sei tu venuto, o figlio,
Contr’a tuo padre irato avendo inteso
Della tua sposa quel che far si deggia ?
O pur vuoi consentir quel ch’a me piace ?
- Emone
Padre, io son vostro, e sempre ’l buon sentiero
Seguirò che da voi scorto mi fia,
Né potrò mai gradir nozze né sposa
Più ch’i vostri paterni e buon consigli.
- Creonte
Così far si conviene, e tutto ’l mondo
Meno stimar che la paterna voglia,
Ché sol si brama ubidiente il figlio
Per aver doppia aita al porger doglia
A’ suoi nimici, e poi compagni fidi
All’onorar gli amici quanto il padre.
Chi di contrarie voglie ha figli appresso
Ch’altro nutrisce ch’a sé doglia e guerra,
Et a’ nimici suoi dolcezza e riso ?
Ora a te, figlio, un van piacer di donna
Frale e caduco non rivolga il senno,
E pensa ben quanto con donna iniqua
Sia duro il dimorar la notte e ’l giorno:
Qual maggior piaga che ’l malvagio amico ?
Ma sì come nimica a tutti noi
Per nuovo sposo nell’inferno scenda,
Ch’in tutta la città trovato ho sola
Costei fatta rubella al nostro impero:
Non vo’ che vane sian le mie minacce,
Ch’io pur l’anciderò, Giove pregando
Che non m’imputi cotal morte a fallo,
Che se spregiarmi da’ congiunti lasso,
So che mi spregeran poi gli altri ancora.
Chi dentro a casa sua giustizia adopra
Vie più nella città poi giusto appare.
Ciascun si dee punir quando le leggi
Trapassa e sforza, e ch’ubidir non pensa
A chi della città corregge il freno.
Sempr’ubidir conviensi al suo signore
E pensar ch’indi sia la sua salute,
E chi fa questo alteramente accresce
Della sua patria il ben, di sé l’onore.
Nessuno error più greve il mondo ingombra
Ch’in vil dispregio aver gli altrui comandi:
Questo sommerge i regni, e questo in fondo
Manda le case, e questo solo in guerra
Porge a’ nimici la vittoria in mano,
Ma del principe suo servar l’impero
Reca vittoria, onor, salute, e pace.
L’ubidienza adunque a quel che regna
È forza mantener sempr’onorata,
Né gli voler prepor cosa sì vile,
Che manco error saria se fusse questo
Un uom, ché pur vergogna troppa fora
L’esser chiamati noi di donna servi.
- Coro
Se ’l vecchio senno dai lunghi anni nostri
Consumato non è, nessun porria
Con più sagge parole aprirne il vero.
- Emone
Gli Dei come sapete, o padre antico,
Han dato a tutti noi vario intelletto
Da pregiar molto più ch’argento od oro,
E quanto questo ognor dentro mi mostre
L’impia sentenzia vostra iniqua e torta
Né saprei né porrei narrarlo altrui,
Ma vinca nel cor vostro altro consiglio;
Io vo sempre spiando in ogni parte
Quel ch’altri facci, o dica, o biasmi o lodi,
Per referirlo a voi sì come quello
Ch’al vostro male e ben compagno vivo,
E la vostra presenzia una tal tema
Desta nei cuor d’altrui, che mai nessuno
Cosa diria ch’a voi molesta fusse,
Ché sempre dal signor si fugge il vero.
Già tutta la città pianger si sente
L’acerbo fin di questa giovinetta
Sfogando l’ira sua con queste voci:
Deh fia già mai che giovin sì leggiadra,
Vie più d’ogni altra valorosa al mondo,
Sol per esser pietosa a morte vegna ?
Or chi trovasse un caro suo fratello
Morto, senza sepolcro, abietto e nudo,
Né consentisse ch’ai rapaci augelli
Fuss’esca, o preda dei bramosi cani,
Ma l’onorasse, e desse ampio sepolcro,
Non saria questa sempre e ’n tutto ’l mondo
Dignissima d’onor, di pregio e fama ?
Tal voce corre ognor segreta e piana.
Mentre amerete il ben, padre, io non tegno
Alcuna possession di voi più cara:
E qual gloria maggior può ’l figlio avere
Che glorioso il padre ? e qual maggiore
Il padre ancor che glorioso il figlio ?
Non si convien fermar sì duro il core
In una opinion, pensando seco
Del tutto vane poi l’altrui credenze.
Colui che senza par sé stesso stima
Dotto, eloquente, e saggio, sempr’avviene
Che più d’ogni altro riputato è stolto.
Il sapiente mai non ebbe a schivo
Gli altrui ricordi, né mai prese a sdegno
Il rimutar talor nuovo consiglio.
Vedete come ben salvi i suoi rami
L’arbor che cede al tempestoso corso
Del fer torrente che dai monti scende;
Ma chi vuol contrastar con l’onde irate
Si svelle al fin dall’ultime radici:
Tale il nocchier ch’al gran furor de’ venti
Non vuol raccor le vele, e ’ncontra spinge,
Manda il legno roverso e ’n fondo cade.
Cedete omai, mutate omai consiglio,
E se mai giovin senno al vecchio porse
Chiaro ricordo, sovr’ogni altro è degno
Chi per se stesso drittamente intende,
Ma perché rare volte il ciel consente
Un tal dono a’ mortai, sempre conviensi
Ricorrer (dico) ai buon consigli altrui.
- Coro
Non vi sia l’imparar da questo a sdegno,
Signor, se cosa alcuna util vi mostra,
Né tu da lui, ché l’uno e altro è saggio.
- Creonte
Degg’io per tanta età nel mondo avvezzo
In sì giovine scuola apprender senno ?
- Emone
Torto questo saria, che l’età sola
Non si dee riguardar, ma l’opre ancora.
- Creonte
L’onorar donna ingiusta è sì degna opra ?
- Emone
Io non cerco onorar chi ingiusta sia.
- Creonte
Or non fu ’l suo fallir di pena degno ?
- Emone
Non dicon quei miglior che Tebe onora.
- Creonte
Il popol non dà leggi al suo signore.
- Emone
Non è d’un re questa sentenzia degna.
- Creonte
Altri è dunque signor d’esta cittade ?
- Emone
Non si truova città che sia d’un solo.
- Creonte
Non son di noi signor le città serve ?
- Emone
Sì, mentre sete voi servi alle leggi.
- Creonte
Che quistion prendi tu per una donna ?
- Emone
Sì, sendo donna voi, ché per voi parlo.
- Creonte
O scelerato ! e contro al padre istesso !
- Emone
Perch’io vi veggio oprare ingiusti effetti.
- Creonte
Non è giusto ’l servar dritto ’l mio impero ?
- Emone
Ma non privar gli Dei del dritto onore.
- Creonte
O pensier femminile ! o basso spirto !
- Emone
Non fui da cosa vil macchiato ancora.
- Creonte
Non è sol d’una donna il tuo parlare ?
- Emone
Di voi, di me, dei santi Dei ragiono.
- Creonte
Non sarà già costei tua sposa in vita.
- Emone
Se così dee morir, non morrà sola.
- Creonte
Sei tu sì stolto che minacci il padre ?
- Emone
Che giova il minacciar le menti inique ?
- Creonte
Tu stolto diverrai piangendo saggio.
- Emone
Ancor direi, se voi non fusse padre.
- Creonte
Non mi molestar più, servo di donna.
- Emone
Volete voi parlar ch’io sempre taccia ?
- Creonte
Voglio, e ti giuro ch’in sì sconci detti
Non ti rallegrerai d’avermi offeso.
Menate quella a me, ch’avanti agli occhi
Del folle sposo suo morrà la sposa.
- Emone
Non fia già mai che nella mia presenza
Senta spegner la vita ond’io sol vivo,
Né tu mai più vedrai questo tuo figlio,
Ma con gli adulator ti resta e parla.
- Coro
Il vecchio re di soverchia ira è carco,
E di doglia soverchia il giovin figlio.
- Creonte
Faccia, pensi da sé cosa più degna
Ch’offender me, né queste due sorelle
Dal destinato fin potrà scampare.
- Coro
Volete voi che l’una e l’altra mora ?
- Creonte
Chi non ha colpa in ciò non porti pena.
- Coro
Che modo al morir suo pensato avete ?
- Creonte
Io vo’ menarla in solitaria parte,
E serrerolla in un sepolcro viva,
Dandole tanto cibo quanto basti
A purgar me da sì crudele scempio,
Ma non già basti a ritenerla in vita:
Ivi il fero Pluton che solo adora
Chiamando, il pregherrà le porga aiuto,
E vedrà certo allor quanto sia folle
Colei ch’i morti onora, e i vivi offende.
- Coro
Quanto il tuo gran valore,
Amor, puote oggi, il cielo,
L’aria, la terra, il mar per pruova il sanno;
Spinto dal tuo furore
Sovente al caldo al gielo
Già sentì Giove il mortal nostro affanno;
Percuote d’anno in anno
Al fresco tempo e verde
Gli augelletti il tuo strale;
In terra ogni animale
La libertà dentr’i tuoi lacci perde,
Né ingegno, né fierezza
Già mai gli snoda o spezza.
Sotto alle gelide onde
Ancor tue forze stendi,
Ch’i pesci infiammi del tuo ardente foco;
Né ’l centro a te s’asconde,
Ché Pluto e gli altri offendi
Con arme tai, ch’ogni suo schermo è poco:
Qual Dio, qual uom, qual loco
Sì possente, o sì fero,
O sì lontan si sente,
Che la fronte e la mente
Umil non pieghi al tuo sagrato impero,
O signor santo e solo
Dell’uno e l’altro polo?
Oh qual perpetuo amaro,
Oh qual giogo aspro e duro
Sente colui che te dentro riceve!
Ogni alto ingegno e chiaro
Divien sì basso e scuro
Che solo è ne’ suoi danni pronto e leve:
Quanto apprezzar si deve,
La patria, il padre, il regno,
Gli amici, e l’altre care
Cose nel mondo e rare,
Sì come un fascio vil si prende a sdegno,
E sol segue e desia
Chi a morte pur l’invia.
Or che sì lunga etade
N’ha ’l cor purgato e scarco
Sì ch’amoroso duol più non m’accora,
Mostro altrui quelle strade
Di cui sovente ’l varco
Destro smarri’ pur giovinetto ancora.
Lasso, ch’or veggio fuora
Venir quella infelice
Antigone regina,
Ch’a morte (ohimè) cammina
Nell’età sua più verde e più felice:
Ahi mondo, stolto è bene
Chi in te ripon sua spene !
Chi terrà ’l pianto mai che chiuder veggia
L’angelica figura
Da questa tomba oscura?
- Antigone
O cittadin della mia patria antica
Con cui nacqui da prima
E poi nutrita fui sì dolcemente,
Ecco la vostra Antigone che muove
L’estremo passo, e mira
Per più non rimirar del sole i rai,
Per non più rimirar, lassa, ché viva
Menata son fra i morti
A sentir morte più che morte acerba;
Non gusterò le dolci nozze omai,
Ma prendo in nuovo sposo
L’inferno a cui sarò congiunta in breve.
- Coro
Tu gloriosa e d’alte lodi ornata,
Prendi questo mortal viaggio estremo,
Non da nocente infermità distrutta,
Né percoss’anco da taglienti spade,
Ma viva e sciolta sola infra i mortali
Discendi dove al fin discende ogni uomo.
- Antigone
Già senti’ dir la dolorosa sorte
Di Niobe infelice
Là in mezza Frigia sovr’un alto monte,
Ch’ivi divenne pietra, e vive ancora
Dall’edera tenace
E pruni e roghi cinta d’ogni intorno,
Da’ venti offesa ognor, di neve carca,
Per pioggia umida e molle,
E ’n su gli occhi s’agghiaccia un pianto eterno.
Lassa, ch’a questo uguale
Misero stato mi riserba il cielo !
- Coro
Ella è Dea che di Dio nel mondo nacque,
Noi siam mortali e di mortai siam nati,
Sì ch’è ben da pregiar s’ad uom mortale
Simil sorte agli Dei nel mondo incontra.
- Antigone
Ohimè ch’io son beffata ! ahi dolci amici,
Perché schernite or tale
Ch’ancor qui vive, e pur conosce il vero ?
O città cara, o dolce popol caro,
O cari fonti, o boschi
Già santi alberghi dei tebani Dei,
Voi chiamo testimon, voi tutti chiamo,
Ch’almen veggiate voi come derisa
Dai cari amici, e per qual fallo, e come
Il passo affretto all’empia sepoltura.
Né sarò, lassa, ohimè misera al tutto
Tra i morti, né tra i vivi.
- Coro
Tu non sarai tra i vivi né tra i morti,
Perché volendo, o figlia,
Esser pietosa e giusta
Prendesti troppo ardire, ond’or sei tale,
Ma in cotal guisa forse
Sostien’ la pena dei paterni falli.
- Antigone
Voi mi tornate a mente i lunghi affanni,
E l’infelice sorte
Del mio misero padre,
Dal qual cominciò in prima
Sopra ’l nostro terren l’alta ruina,
Ch’ancor non truova fondo.
O maladette nozze di mia madre,
Madre al mio padre e sposa!
O tristo albergo che vedesti insieme
Giacer la madre e ’l figlio!
O scelerato letto in ch’io già nacqui
Sorella e figlia al padre,
Et alla madre mia nipote e figlia!
Per tal peccato orrendo
Senz’alcun frutto aver di me lassato
A così duro fin giunta mi veggio.
Ohimè fratello, ohimè, quella pietade
Che ’l cor di te mi punse
Quand’io ti vidi in terra
Or, lassa, è che m’ancide.
- Coro
Giusta pietade è l’onorare i morti,
Ma non per ciò si deve
Schernir, quand’e’ comanda, un suo signore;
Ma l’alta aspra durezza
Innata entro ’l tuo cor t’indusse a questo.
- Antigone
Lassa, senz’altrui pianto,
Senza pietà trovar, senza ’l mio sposo,
Per sì corto viaggio
A forza son menata al passo estremo.
Ohimè, che ’l sacro lume
Di questo sol veder mai più non deggio;
Ohimè, del duro stato in ch’io mi truovo,
Che devria far le pietre
Struggersi in pianto, alcun non veggio intorno
Ch’almen si doglia alquanto.
- Creonte
Chi porre indugio alla vicina morte
Coi pianti e coi sospir seco credesse,
Non queteria già mai la notte e ’l giorno.
Menatela oramai là dov’io dissi,
Poi la chiudete in quella tomba oscura
Con poco cibo, et ivi, o morta o viva,
Com’a lei piacerà, sempre dimori:
Noi siam purgati d’ogni colpa ria,
E lei privata avrem di questa luce.
- Antigone
O tomba, o casa oscura, o tristo albergo
Che dèi sempre coprirmi, ecco ch’io scendo
Ratta dentro al tuo sen, per far maggiore
Il numero de’ miei che morte ha spenti,
I quai fur senza fine; e l’ultim’io,
Lassa, sarò, ma con più acerba pena
E ’n più giovine età del mondo parto.
Pur partendo mi pasco in questa spene,
Ch’amica vengo al padre, amica insieme
A te, caro germano, a te mia madre.
Voi tutti morti già con queste mani
Presi e purgai, porgendo quell’onore
Che si conviene, e ch’io d’aver non spero,
Et or cercando, o Polinice amato,
Renderti uguale onor a tal son giunta;
Ma non mi pento già d’averti ornato,
Perché se madre essendo avessi visto
Ivi un mio figlio, o ’l mio diletto sposo,
Non avrei forse tal periglio eletto
Contr’all’altrui voler com’ho fatt’ora.
Morto il mio sposo un altro n’era al mondo,
Molti figliuoi di me nascer potea,
Ma morti l’uno e l’altro mio parente
Non avea da sperar nuovo fratello,
E però d’onorarti alfin disposi.
Or questo è ’l fallo che Creonte dice,
Questo è quel troppo ardir, fratel dilecto;
Onde or che ’l caro giorno era vicino
Dell’alme nozze, e del mio dolce sposo,
Per man d’esto empio e rio qui son condotta
Al fer sepolcro, ov’altro letto ornato,
Altro sposo, altre nozze, altri figliuoli
Deggio trovar che quei che l’altre fanno,
Ma d’ogni amico abbandonata e sola
Viva men vado ad albergar tra i morti.
E per qual legge, ohimè, per qual peccato?
Deh verso quale Dio più volger deggio
Gli occhi dogliosi ? a qual compagno fido
Deggio chieder soccorso, poi ch’in cambio
Dell’usata pietà questo ricevo?
Ma se la pena mia su ’l ciel gradisce,
Comportiam pazienti i giusti danni;
E se ’l fallo è d’altrui, ch’ei non sostegna
Pena maggior che quella stessa ch’ora,
Lassa, contra ’l dever mi sta davanti.
- Coro
Ancor vivono in lei gli spirti interi,
E l’alma è scarca e non da tema oppressa.
- Creonte
Ben veggio omai che ’l tardar vostro fia
Cagione al fin di pianto a tutti voi.
- Antigone
A tostissima morte mi conduce
Questa minaccia acerba.
- Creonte
Io ti conforto a non aver più spene
Ch’altro deggia seguir che quanto è detto.
- Antigone
O patria, o mia città, rimanti in pace,
O santi Dei paterni,
Ohimè ch’a morte corro, e più non tardo;
O cari cittadin padri e compagni,
Vedete omai la misera regina,
Di tanti sola al mondo,
Che morte acerba e da qual uom sostiene
Perché fu giusta e pia!
- Coro
Dolce, gioconda e lieta
Questa vita mortal chiamata fora,
S’altri sapesse ben reggere il corso,
Ma, lasso, ad ora ad ora
Feron la mente in noi, che saria queta,
Mille desii con venenoso morso:
Noi spietati di noi, non pur soccorso
Non le porgiam, ma grevi ognor nimici
A lei, lassa, giungiam, che mercé chiama.
Quel follemente brama
Gli altrui regni occupar, l’altrui pendici,
E mentre alza superba
La man contr’ai miglior di pace amici,
Vive in affanni e ’n guerra, e ’l ciel gli serba
Nel ferro o nel venen poi morte acerba.
Quell’altro eterna gloria
E lunga vita ancor dopo la morte
Sciocco bramando, invan l’alma tormenta,
E se troppo umil sorte
Già di Marte gli toe pregio e vittoria,
Delle Muse il cammin bramoso tenta,
E con lor di Parnasso s’argomenta
Montar la cima, ove chi giunge è nulla
(Se ben s’estima) se non sogno et ombra,
Ma ’l van desio gli adombra
Cosa che ’l miser cor pasce e trastulla;
Vivendo, il cor gli rode
Un crudel verme ch’ogni pace annulla,
Poi compiti i suoi dì, quell’alte lode
A lui che son, s’ei più non sente et ode ?
Un altro argento et oro
E per terra e per mar bramoso e ’ntento
Cerca in mille perigli, in mille affanni;
Non pioggia, neve, o vento,
Non caldo cura, o giel, s’ampio tesoro
Spera il folle adunar dopo a molt’anni:
Quinci sono i lacciuoi, quinci gl’inganni
Per cui la libertà, per cui la pace
Perdut’aviam che ’l viver fea giocondo.
Ma se ’l misero mondo
Volesse ben pensar come fallace
È quel ch’ei tanto apprezza,
In odio allora avria quant’or gli piace,
Ché chi terre acquistar, lode o ricchezza
Di soverchio desia, se stesso sprezza.
O quanto è dolce, o quanto,
Il cor disciolto aver d’ogni altra cura,
E ’n bando por desio, timore e spene,
Sol quel ch’in noi natura
Richiede avendo! o giusto o saggio o santo
Quel ch’in sì torbo mar tal corso tiene !
Né di suo proprio mal, né d’altrui bene
Molto dolersi: il pregio e l’oro e i regni
S’abbia chi con sudor gli merca e sangue.
Quand’un re vinto langue
Infra nimici armati, e certi segni
Vede di morte allato,
Con sospir d’ira e penitenza pregni
Felice chiama l’altrui basso stato,
Che poco innanzi il suo dicea beato.
Ecco Tiresia il santo vate e giusto:
Io prego umile il ciel ch’omai ne mostri
Vicino il fin dei lunghi affanni nostri.
- Tiresia
Noi due ch’insieme andiamo, o cittadini,
Per un sol veggiam lume, perch’ai ciechi
Convien che d’altrui sia la strada scorta.
- Creonte
Che nuove apporti, o mio Tiresia antico ?
- Tiresia
Io tel dirò, ma fa’ quant’io ti mostro.
- Creonte
Io non fui mai dal tuo voler lontano.
- Tiresia
E per ciò sei venuto in questo impero.
- Creonte
Sempre m’affaticai nel ben di quello.
- Tiresia
Fa’ pur d’esser or saggio al gran bisogno.
- Creonte
Ohimè che ’l tuo parlar mi dà spavento!
- Tiresia
I segni ora udirai dell’arte mia.
Io stava assiso sopr’un certo colle
Dal qual notare i santi auguri soglio;
Send’io così, l’orecchie mi percuote
Voce orrenda d’uccei maligni e crudi
Che fuor roca venia con tristo spirto,
Poscia coi becchi e l’unghie insanguinate
L’un ver l’altro movea battaglia acerba
(Ch’al dibatter dell’ali il tutto appresi).
Sovr’i devoti altar pien di paura
Subito accesi allor sagrati incensi,
Ma ne’ miei sacrifici mai non parse
Chiara la fiamma, anzi sommerso ’l fuoco
Dal cener non mostrò mai luce aperta;
L’ostia sempre più cruda, umida e crespa,
Di fumo cinta, un tristo odor rendea,
Il fiel dentro si sparse, e quella tutta
Dell’amaro liquor coperse e tinse.
Questi segni del ciel ver noi cruccioso
Tutti allor mi narrò questo mio servo,
Mio duce in questo ov’io son duce altrui,
Ma solo a tue cagion tutto n’avviene,
Perché gli augelli e i can piene e macchiate
Han le case e gli altar d’ossa e di sangue
Del misero figliuol d’Edippo morto,
Onde gli Dei non voglion più da noi
Ricever sacrifici, incensi e preghi.
Né puote alcuno augel con chiara voce
Empier di lieto augurio i nostri orecchi,
Sendo di sangue uman pasciuto e sozzo.
Pensa, o figliuolo, e sappia che ’l peccare
A ciaschedun mortal cosa è comune,
Ond’assai folle, ma non stolto in tutto
Si dee quel riputar ch’adopra un fallo
Poi si corregge, e crede a chi l’emenda,
Ma l’esser duro accresce sempre il male.
Perdona al morto, e non voglia esser crudo
Verso colui che più non puote aitarsi:
E che gloria ti fia nuocere ai morti ?
Pensala ben, ti dico, e gran guadagno
È l’imparar da chi t’insegna ’l bene.
- Creonte
Voi tutti, o vecchio, come segno a strale
Posto m’avete ai vostri van disegni,
Ma troppo bene omai per lunga pruova
So chi voi sete, e già dai vostri sogni
Raggirato e beffato un tempo fui;
Se guadagnar vorrete argento et oro,
Troverrete altro modo, e quel ch’è morto
Non farete coprir d’altro sepolcro,
Che s’io vedessi ben l’augel di Giove
Macchiar del sangue le celesti sede,
Non vorria consentir (temendo questo)
Che sotterrato fusse: e so che cosa
Mortal non può macchiar gli Dei superni,
Ma spesso suole, o buon Tiresia antico,
Quel rovinar cui vil guadagno muove
All’altrui confortar nell’opre ingiuste.
- Tiresia
Chi ’l vide mai di me, chi ’l pensò mai?
- Creonte
Non bisogna cercar chi ’l vide, o seppe.
- Tiresia
Quant’è nobil più d’altro il buon consiglio!
- Creonte
Quanto l’essere stolto è maggior peste.
- Tiresia
Da tale infermità sei tu compreso.
- Creonte
Non voglio ad un profeta oltraggio dire.
- Tiresia
Qual oltraggio maggior che dir bugiardo?
- Creonte
Sempre l’uom ch’indivina ama l’argento.
- Tiresia
E gl’ingiusti guadagni ama ’l tiranno.
- Creonte
Sai tu ben che tu parli al tuo signore?
- Tiresia
So, perch’a mia cagion venisti tale.
- Creonte
Tu sei saggio profeta, ma non giusto.
- Tiresia
Cosa dir mi farai ch’io non volea.
- Creonte
Di’ pur, che ’l premio più che ’l ver ti spinge.
- Tiresia
Part’ei ch’ora ’l mio dir risguardi a prezzo?
- Creonte
Non or che sai ch’ogni tuo inganno è vano.
- Tiresia
Io pur te lo dirò: sappia che ’l sole
Non dee da questo volger molti giorni,
Che vedrai morto un de’ tuoi figli, in cambio
Di quei due morti a cui fai tanto oltraggio.
Tu privat’hai di questa luce viva
Quell’infelice, e ’n un sepolcro chiusa,
Quell’altro che devrebbe esser sotterra
Lassi senza sepolcro abietto e nudo:
Non sai tu ben ch’a te far ciò non lice?
E che fai forza ingiustamente al cielo?
Ma gl’infernali Dei, le furie orrende
Vendicatrici de’ mortali errori
Tanto opreran, che ne’ medesmi affanni
In cui pon’ molti, te vedranno involto;
E tosto allor vedrai se per guadagno
T’avrò parlato, perch’in tempo breve
Di pianti e strida d’uomini e di donne
Risonar sentirai l’afflitte case.
Vedrai farsi rebelle al tuo gran regno
Tal che più t’ama, u’ le selvagge fere,
I can, gli augei portar quel tristo odore,
E le mura macchiar del vostro sangue.
Sì come al segno arcier, tali ora spingo
Venenose saette entro ’l tuo core,
Di cui fuggir non puoi la piaga acerba.
Rivolgine, o fanciullo, al nostro albergo,
Perch’in se stesso pur (restando solo)
Disfoghi or l’ira, e per suo meglio impari
A più tener la lingua a sé ristretta,
Et anco esser più saggio ch’ei non mostra.
- Coro
Signore, or se n’è gito il gran profeta,
Ma noi, dal giorno che le chiome ’l pelo
Ch’inghirlanda la fronte e veste il volto
D’altro giovin color si fer d’argento,
Non trovammo il suo dir fallace e vano.
- Creonte
Anch’io so questo, e già timor m’assale,
Ma dura cosa è ’l darsi vinto altrui,
E ’l contrastar quando ’l periglio è sopra
È solo un ricercar fatiche e danni.
- Coro
A voi convien usar consiglio e senno.
- Creonte
Di’ pur, ch’io sono alle tue voglie presto.
- Coro
Mandate a trar colei fuor del sepolcro,
E sepolcro da poi donate al morto.
- Creonte
Part’ei perciò che così deggia fare ?
- Coro
Tosto quanto si può, ché la vendetta
Dal ciel dopo ’l fallir veloce viene.
- Creonte
Deh con che greve duol m’induco a questo!
Ma la necessità vince ogn’impresa.
- Coro
Gite voi stesso e non mandate altrui.
- Creonte
Andianne adunque, e voi d’intorno, o servi,
E voi lontan prendendo marre e scure
Gitene tutti là verso ’l sepolcro,
Che da poi che ’l pensier cangiar conviene
Io medesmo sciorrò quel ch’io legai,
E confesso oramai ch’i nostri sdegni
Non devrien sormontar l’antiche leggi.
- Coro
O possente Fortuna,
Per le cui leggi il mondo
Sol si governa in questa e ’n quella etade,
Quant’è sotto la luna
Or in cima or in fondo
Sì com’è ’l tuo voler s’innalza e cade:
Quante belle contrade
Già fur, che selve sono
Di fere orrende nido!
Quante ch’in ogni lido
Sparser vincendo in arme il pregio e ’l suono,
Ch’or son dell’altrui voglie
Serve, trionfi, e spoglie!
Son, perfida, i don tuoi
Sì com’al lito il mare,
Che mille volte ’l dì si fugge e riede.
Ah miser chi fra noi
Tien di soverchio care
Le tue false lusinghe, e troppo crede!
Tu fragil, senza fede,
Instabil, varia, e leve,
Lubrica, et inconstante,
Fermar non sai le piante,
Tant’è ’l voler e ’l disvoler tuo breve:
L’uom ch’i tuoi beni adora,
Tema e speri ad un’ora.
Tu i giusti sempre e i degni
E i saggi, o Dea fallace,
Calchi, e sol levi al ciel gl’ingiusti e i folli;
Con povertade spegni
Gli alti intelletti, pace
Dando e gioia e ricchezze a i bassi e i molli;
Spesso i più giovin tolli
Del mondo, e lassi in vita
I vecchierelli infermi,
Ond’ho ben da dolermi,
Ahi lasso, ch’allungai l’aspra partita
A tempo sì noioso
Che ’l viver n’è gravoso.
Pur sia che vuol, poi che qua giù conviene
Seguir sol quella strada
Ch’a quest’altera aggrada.
- Nunzio
O nipoti di Cadmo, abitatori
Delle superbe case d’Anfione,
O misero o felice nullo al mondo
Chiamar si dee mentre ch’ei viv’ancora:
La vita al fine, e ’l dì loda la sera,
Che la Fortuna varia or alto or basso
Volge i mortali e poco ne tien fede,
E nessun del futuro il certo apprende.
Sovr’ogni altro beato era pur dianzi
Creonte, che salvata avea la terra
Dall’inimiche man, preso l’impero,
E vivea coi suoi figli lieto e ’n pace;
Or d’ogni cosa in un momento è privo.
Quel che perde ’l contento, perde ’l tutto.
Sia colmo un quant’ei vuol d’argento e d’oro,
Possegga quante son cittadi e regni,
Che se ’l contento manca, ogni altra cosa
Si dee poscia stimar sogni, ombre e fumi,
Ché ’l diletto medesmo indi ne tragge
Che dal dolce sapore il gusto infermo.
- Coro
Che nuovo danno avvien nei signor nostri?
- Nunzio
Son morti, e vive sol chi n’ha cagione.
- Coro
Chi è morto? chi ancise? dinnel tosto.
- Nunzio
Emone è morto, che se stesso ancise.
- Coro
Per man paterna, o per la stessa è morto ?
- Nunzio
Per man sua stessa, e per cagion del padre.
- Coro
Pur conoscesti ’l ver, santo profeta.
- Nunzio
Consiglio or ne bisogna all’altre cose.
- Coro
Euridice veggio, di Creonte
Sposa infelice, che fuor ratta scende,
O per piangere ’l figlio, o forse a caso.
- Euridice
O cittadin, che ragionar fu ’l vostro
Ch’udiva mentr’usci’ del tempio fuore,
Là dov’era ita ad onorar gli Dei,
Ch’allor che per uscir moveva ’l piede
L’orecchie mi percosse un suon che venne
Carco di danni miei (per quel ch’io intesi):
Sopra le serve mie da tema oppressa
Subito caddi, e d’ogni senso fuore;
Ma che diceste voi? dite, vi prego,
Che ’l narrerete a chi per lunga usanza
Ha nell’avverse cose avvezza l’alma.
- Nunzio
Il tutto vi dirò, santa regina,
Senza passar d’una parola il vero:
A che celarvi quel ch’ad ogni modo
Saper v’è forza? Il ver (quantunque pesi)
Nessun porria biasmar se non a torto.
Io seguia dietro i passi al vostro sposo
Là verso ’l pian dove morto giacea
Lacero e guasto ’l miser Polinice,
E giunti a lui, Proserpina e Plutone
Pregando ch’in ver noi posasser l’ira,
Tutto ’l purgammo, e sopra frondi e giunchi
Ardemmo quel ch’i can lasciato avieno,
Poscia al cenere suo sepolcro demmo.
Indi ne gimmo all’alta sepoltura
Che chiusa tiene Antigone infelice:
Un di noi più vicino all’impia tomba
Sentì dentro sonar lamenti e strida,
E tosto al nostro re tornando il disse,
Tal che ratto Creonte il passo mosse
Fin ch’all’orecchie sue pervenne un pianto
Non conosciuto ancor, ma seco stesso,
Lasso, dicea, ben or presago sono
De’ danni miei, ben infelice fia
Per me questo cammin, lasso, ch’io prendo.
Ahi lasso me, l’orecchie e ’l cor mi fere
La voce del mio figlio: o servi fidi,
Ite là ratti e tosto aprite ’l sasso
Del fer sepolcro, e dentro ben guardate
S’è ’l ver ch’io senta Emone, o ’l falso estimo.
Noi presti ai detti suoi dentro scendemmo,
E nell’ultime parti, ad un gran legno
Che sostiene ’l sepolcro, alta e sospesa,
Morta trovammo allor la bella sposa;
Per laccio al bianco collo intorno avvolto
Quel ricco cinto avea, che ’l primo giorno
Le diè ’l suo caro sposo e vostro figlio.
Il miserello Emon con pianti e strida
Se stesso sollevando alto da terra
Abbracciava e baciava intorno intorno
Della gonna e de’ piei la parte estrema:
L’inferno maladisse ch’il suo bene
Furato avea, la morte, l’impio padre,
La Fortuna, gli Dei, se stesso ancora;
Ma Creonte che poco a noi lontano
Dietro seguia, quando conobbe il figlio
Poste subito giù l’ire e gli sdegni,
Chiamandolo e piangendo in ver lui corse:
O misero, che fai? qual van dolore
T’ha la mente ingombrata?a che ti struggi?
Lasso, ov’or hai la conoscenza e ’l senno?
Vienne a me, figlio, e non voglia esser duro
Al vecchio padre ch’umil prega e chiama.
Emone alquanto allor con gli occhi torti
Risguardò ’l padre; e poi senz’altro dirgli
Con furia indi si tolse, e tratto fuore
Un acuto coltel che cinto avea,
Si ferì ben due volte il lato manco,
Tanto ch’ei cadde al fin col volto a terra;
E così stato alquanto, il destro braccio
Fermando in terra, appena alzò la fronte
E i languid’occhi nella giovin morta
Fermò, quasi dicesse: io vengo dietro.
Poscia un greve sospir dal cor sospinse,
Che tinto venne fuor di spuma e sangue,
E morto cadde, e così morto giace
Presso alla morta sposa il giovin figlio,
E l’infelice nozze nell’inferno
Al destinato fin son giunte omai.
Il vecchio signor nostro tardi vede
Quant’è d’ogni altro più dannoso errore
Il non dar fede ai buon consigli altrui.
- Coro
Che debbian noi pensar? l’alta regina
Senz’altra sua risposta torna indietro.
- Nunzio
Maravigliomi anch’io, ma spero forse
Che per non empier la città di pianto
In casa se n’andrà piangendo ’l figlio
Con le sue serve e l’altre sue compagne:
Ella è pur saggia, onde temer non posso
Che soverchio dolor l’induca a morte.
- Coro
Sempr’è più greve ’l duol quand’altri ’l preme,
Che quel che si disfoga in pianti e ’n voci.
- Nunzio
Andrò là dentro adunque, e terrò cura
Se questa afflitta per soverchio affanno
In sé disfoga il chiuso duol che porta.
- Coro
Ecco qua ’l nostro re, che vien piangendo
La morte del suo figlio amaramente;
Ma se lecito m’è, cagion n’è stato
Il proprio suo, non già l’altrui difetto.
- Creonte
O mente cieca mia senza consiglio!
Ohimè mortal mio fallo!
Cagion di morte altrui,
A me di vita assai peggior che morte.
Vedete, o popol caro, il signor vostro
Ch’ha posto in morte il figlio,
Se stesso in doglia eterna:
Ahi credenze del mondo vane e ’nferme!
O giovin figlio, ohimè, da morte acerba
Spento in su ’l bel fiorir degli anni tuoi,
Ohimè, ohimè, ohimè! non già tua colpa
Or t’ha condotto a tale,
Ma i miei consigli stolti.
- Coro
Deh, come or conoscete indarno ’l vero!
- Creonte
Lasso me, ch’a mio danno il ver conosco,
Ma gli Dei pronti allor tutti al mio male
M’avien furato il senno,
E la mente accecata,
E mi spingeano a forza
Giù per precipitoso e dritto calle
All’ultima rovina ov’io son giunto.
Ohimè, ohimè, ohimè!
Ahi fatiche mondane,
Come al più sete voi dannose e grevi!
- Servo
Signor, nuova cagion di pianger sempre,
Lasso, vi reco, e nuovo danno acerbo
Tosto udirete, e non minor del primo.
- Creonte
Che mal può più venir? che danno è questo?
- Servo
La madre di quel morto e vostra sposa
Ha per soverchio duol se stessa ancisa.
- Creonte
Oh, oh, morte impia e ria,
Perché perché così, lasso, m’affliggi?
O infernal porto ingordo,
Ben sazio oggi sarai del nostro sangue!
O servo apportatore
Di tanta mia tristizia, or ch’hai tu detto?
Ohimè, la tua imbasciata ha, lasso, anciso
Un ch’era morto in prima!
Che di’ tu, servo? che novella porti?
Ohimè, ohimè, ohimè!
È però ver ch’all’aspro acerbo fato
Del mio caro figliuol congiunta sia
La morte ancor della mia dolce sposa?
- Servo
Veder si può, ch’ivi entro morta giace.
- Creonte
Ohimè, che nuovo mal, che danno è questo?
Ohimè, quand’io pensava esser nel fondo
Delle miserie mie, più basso caggio.
Ohimè, che nuovo mal più giunger puote?
O morte, o morte, a che mi serbi ancora?
Lasso, che ’l caro figlio ho morto visto;
Or della donna mia la morte intendo:
Oh, oh madre infelice! oh miser figlio!
- Servo
In guisa d’ostia intorno ai sagri altari
Tutto di sangue empié lo smalto e ’l letto,
Prima piangendo la spietata morte
Di Megareo suo primo antico sposo,
Poscia del figlio, indi divota il cielo
Pregò che l’ira sua volgesse in voi,
Come in sola cagion ch’uccise ’l figlio.
- Creonte
Ohimè, ohimè, ohimè!
Ohimè, che fer timore
Il cor m’agghiaccia e stringe,
Che di me stesso tutto fuor mi tragge ?
Parmi qualunque incontro
Che per tormi la vita il braccio stenda:
Ohimè, che sendo involto
Infra tante miserie, in tanti affanni,
Viver non voglio, e pure
Temo (e non so perché), morte, i tuoi colpi.
- Coro
Or ch’ha condotto a tal la donna e ’l figlio,
Stolto invan si riprende e di sé teme.
- Creonte
Dimmi di nuovo com’a morte venne.
- Servo
Nel ventre suo con rabbia un coltel misse
Tosto ch’udì del figlio il caso acerbo.
- Creonte
Lasso me, più non posso, o voglio altrui
Volger la colpa de’ miei danni amari:
Io solo, io sol v’ancisi, o cieco, o stolto,
Io sol v’ancisi! O servi miei, veloci
Or menatemi lunge, lunge in parte
Là dov’occhio mortal mai più non scerna,
Ch’io non son più Creonte, io son la morte.
- Coro
Al miser uom non giova andar lontano,
Che la Fortuna il segue ovunqu’ei fugge.
- Creonte
Venga venga oramai
La morte oscura, e ne conduca in porto,
E rechi al mio dolor l’ultimo giorno;
Venga venga oramai,
Sì ch’altro nuovo sol mai più non veggia.
- Servo
Lasciate ire ’l futuro, ch’al ciel solo
S’aspetta il provveder quel ch’esser deve;
Pensiam rimedio a quanto n’è presente.
- Creonte
Io vo pregando quel che più vorrei.
- Servo
Vano è ’l pregar, perciò che ferma e certa
Sua ventura ha ciascun dal dì ch’ei nacque.
- Creonte
Menate questo stolto in altra parte,
Il qual te figlio (non volendo) ancise,
E te donna mia cara; in ogni loco
Ho morte, doglia, e sangue: ohimè, dov’ora,
Dove potrò voltar gli occhi o la mente
Ch’ivi mai vegga, o pensi altro che morte?
E poi ch’ogni mio ben morte m’ha tolto,
Per mia pena maggior mi serba in vita:
Ma che, lasso, bram’io? se morte viene
E mi toe di qua su, là giù nimici
Avrò tutti gli Dei, la sposa, il figlio,
Il nipote, la nuora, or che fia, dico,
Di me? chi vide mai pena più greve?
Qual infernal tormento al mio s’agguaglia?
Il morir mi dà tema, il viver doglia,
Né posso altro sperar che peggio ognora.
- Coro
Sovr’ogni altro beato è l’uom ch’è saggio:
Non si deono spregiar gli Dei già mai,
Né contr’al lor potere armar la lingua,
Ch’a lungo andar con grevi danni e pene
(Com’ora il signor nostro)
Fanno in vecchiezza altrui per pruova saggio.
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