Davide Van De Sfroos al Teatro Nuovo
Teatro Nuovo di Verona
Sabato 7 febbraio 2015, ore 21.00
Un concerto che vuole essere una rievocazione delle canzoni che nel passato hanno fatto la storia di Davide Van De Sfroos unita a una rivisitazione in chiave acustica di alcuni dei brani di “Goga e Magoga”, l’album campione di vendite pubblicato lo scorso.
Il “Tùur Teatràal” sara’ l’occasione per rispolverare alcuni dei brani rimasti a lungo chiusi in un cassetto – conferma Davide -. C’e’ grande voglia di riscoprire il passato, affidandosi a quelle canzoni che ancora oggi fanno parte a pieno titolo della mia storia personale e musicale. Il teatro permette di rivisitare i brani in chiave acustica e intima, mescolando passato e presente, con uno sguardo – perche’ no – anche al futuro”.
DAVIDE VAN DE SFROOS
«Io, campano onorario con il dialetto laghée
parlo a tutta l’Italia»
Con il suo Tùur Teatràal sarà stasera alle 21 al teatro Nuovo, in quella Verona che è un po’ la sua seconda città natale. Il lombardo Davide Van De Sfroos sta portando in giro storie e canzoni in un “live” particolare (biglietti ancora disponibili, alla cassa del teatro e da Eventi 045.8039156) all’interno della rassegna Cantautori Doc.
Davide, che concerto sarà?
Il tour è stato pensato per essere acustico, suonato da un quartetto con cambiamento costante di suggestioni e armonie, durante una stessa canzone. Grazie alla presenza del polistrumentista Cusmano (flauti, mandolini, chitarre, fisarmoniche); e grazie al mio fedele “Anga” che non suona solo il violino. Poi c’è “Gnola” con tutte le sue chitarre e io con le mie.
Non è la presentazione del recente disco Goga e Magoga? No, sarà uno spettacolo di tre ore che non ha paura di scavare nel mio repertorio per estrarre brani dimenticati, con sonorità pure un po’ medievali. Sarà un “live” libero di spaziare dove vuole, ultimo album compreso, attraverso una narrazione spazio-temporale senza limi.
Qualcosa di simile a Nighthawks at the diner di Tom Waits?
Sì, nella mia dimensione teatrale c’è una parte raccontata molto simile. Voi nominate Waits e infatti in scaletta c’è anche la mia versione di un brano del cantautore californiano. C’è la dimensione tipica del raccontarsi suburbano di Waits. Nel mio caso è più folk.
Quando dicono che fai folk, ti senti limitato?
Eh, la gente dice molte cose… Usando io violini e fisarmoniche, e trattando temi popolari, posso essere inserito nel genere folk. Con forti caratteristiche territoriali e una poetica di paese. In tutto questo sì, mi sento folk. Certo non come melodie: per esempio in Goga e Magoga c’è il rock, un po’ di metal e pure la psichedelia!
Territoriale, ma con anima “on the road”: sei stato in tutta Italia e sei apprezzato anche da chi non conosce il dialetto laghée, giusto?
Sì, a parte il Molise, ho suonato in tutte le regioni italiane. La cosa più sorprendente è la cittadinanza onoraria di Vallesaccarda, un comune della provincia di Avellino, ai confini con il Foggiano. Da oltre 10 anni vado lì e suono: è nato un sodalizio che dura tuttora. E poi ho un legame particolare con la Sardegna. Il cantare di un territorio non mi preclude amare e visitare altri luoghi.
Avrai notato in Italia il campanilismo che ci impedisce di sentirci nazione. Ma cosa ci unisce?
Sul fondo, ben nascosto, c’è un senso frastagliato di appartenenza. Al di là del nostro cantare inni che sanno di calcistico, con qualcuno da avversare a nord o a sud, specie quando siamo all’estero, c’è attaccamento alla bandiera, a questa nazione fatta a forma di strana scarpa che scende giù nel mare; un posto da sempre culla di culture. Ne siamo parte, nel bene e nel male.