Balletto Civile per Accessibile è meglio, allegro con brio
I “performers nomadi” di Balletto Civile (Maurizio Camilli, Ambra Chiarello, Mirko Lo Piccolo, Michela Lucenti, Alessandro Pallecchi, Giulia Spattini) ridenti testimoni danzanti di accessibilità per dismappa dopo lo spettacolo “Ruggito” al Teatro Camploy di Verona per la rassegna L’Altro Teatro.
La colonna vertebrale, sfondo del sito web di Balletto Civile
Making of
http://www.ballettocivile.org/
BALLETTO CIVILE è un collettivo nomade di performers.
Attualmente in residenza artistica presso la Fondazione Teatro Due di Parma.
I Fondatori sono Emanuele Braga, Maurizio Camilli, Ambra Chiarello, Francesco Gabrielli, Michela Lucenti(direttore artistico) e Emanuela Serra.
I membri del Nucleo Stabile sono performers che da Gennaio 2011, dopo aver partecipato al progetto “Corpo a corpo” in residenza al Teatro Due, lavorano stabilmente nella compagnia.
I collaboratori sono artisti che, per differenti ragioni di affinità alle nostre modalità di azione, affiancano o si sono affiancati alle nostre modalità di azione.
IL METODO
Parto dal corpo, non precisamente dalla danza.
Il movimento codificato, che richiede qualsiasi tipo di danza, presuppone una coscienza del corpo e molto spesso dobbiamo chiederci come per l’attore e il danzatore si possa raggiungere questa coscienza del corpo che ci permetterà poi di accedere alla tecnica interpretativa e di conseguenza al senso dell’azione.
Il punto fondamentale è la calma, cioè un’accettazione del momento presente in cui ci si trova, i nostri corpi sono una mappa di quello che viviamo e pensiamo, e non possono nascondere per molto tempo le trappole emotive e intellettuali in cui ci incastriamo.
Si dice molto spesso che un bravo attore debba essere svuotato, pronto ad essere riempito da qualcosa di diverso da sè, questa affermazione è un ossimoro,come può una creatura vivente e pensante essere vuota, non potrà mai esserlo, potrà imparare ad essere cava, cioè a conoscere così bene se stessa da far entrare altro, facendolo appoggiare al proprio sè, cioè a far sì che il proprio pensiero e soprattutto il proprio corpo diventi un involucro forte, pronto ad accogliere un’interpretazione, ma sempre raccolta dal proprio sè.
Questo concetto in apparenza complicatissimo è in realtà molto semplice.
Il performer a differenza del musicista ,del pittore non veicola il suo senso attraverso uno strumento altro da sè, ma decide di farsi esso stesso strumento e quindi la sua materia di lavoro non può essere altro che il suo corpo.
E questo naturalmente vale allo stesso modo per l’attore e per il danzatore, anche se questo concetto è ancora molto lontano nell’ambito culturale italiano, come se un’attore potesse prescindere dal suo corpo e un danzatore dall’intenzione e dal pensiero, pensate che assurdità, eppure qualcuno si ostina ancora a tenere separate le cose, ma credo che noi non dobbiamo più occuparci di combattere questo pensiero ed entrare a piedi pari nell’era moderna.
Pensate semplicemente a quando qualcuno ci stimola o ci emoziona parlando ad una conferenza, non si limiterà a parlare di un argomento specifico, ma se conquisterà la platea lo farà con la sua umanità, dando la possibilità a chi ascolta di sentirsi partecipe, e che cosa è questa umanità se non la possibilità di cogliere da parte di chi ascolta l’uomo e la vita che sostiene il grande viaggio che il filosofo o lo scienziato o il medico o il politico o il religioso stanno facendo?
Il teatro in quanto atto comunitario vive delle stesse leggi.
Che cos’è un Otello senza intuire la peculiarità della persona che lo sta interpretando o perchè ascoltare le variazioni di Bach vedendo qualcuno che si muove senza capire il pensiero con il quale il danzatore le sta interpretando, allora molto meglio leggersi Shakespeare o ascoltare bach da soli per filtrarli dalla nostra stesso pensiero e dal momento emotivo che stiamo vivendo.
A questo punto basterebbe pensare che il lavoro di un interprete è assolutamente un lavoro di sfogo fisico ed emotivo totalmente autoreferenziale, ma chiaramente non è così e qui entra in campo una riflessione appunto sulla metodologia che si può applicare per lavorare con rigore ad un processo di verità.
Partire dal corpo per me significa provare a partire dalla verità, e molto spesso la verità su di noi ce la fanno scoprire gli altri. Tentare un’attivazione del corpo e del senso, (perchè non c’è nessun movimento che non produca in chi lo compie un pensiero, anche irrazionale) attraverso uno spostamento del pensiero dal sè, cioè occupandosi realmente di un’altro corpo.
Dopo quasi vent’anni di insegnamento ( perchè a ventanni ho cominciato ad avere i primi ingaggi come insegnante) ho capito che per me era fondamentale sia con gli attori che con i danzatori partire e stare a lungo sullo studio molto semplice di attivo -passivo. Un’esercizio fisico che consiste nel far compiere all’altro,attraverso un’impulso, un piccolo spostamento fisico, e subito dopo accettare che l’altro stimoli te con un impulso che tu dovrai elaborare prima di intervenire nuovamente sull’altro.
Su questo stupido esercizio c’è materia di lavoro per anni, perchè contiene moltissimi elementi dell’arte del fare teatro.
Saper condurre senza violenza con delle idee sceniche.
Lasciarsi condurre veramente, quindi sorprendersi.
Capire che essere passivo contiene un’attività.
Sapere che essere attivo contiene una passività.
Porsi in uno stato d’ascolto totale in entrambe le posizioni.
Pensare che il dialogo contiene respiro per essere organico.
Imparare a non fare male e a non farsi male.
Avere un corpo pronto fisicamente allenato all’imprevisto.
Avere una mente duttile alla novità e continuamente all’invenzione.
Saper accogliere anche quando si rifiuta,o si è violenti, imparando il grande gioco del teatro.
Saper tenere a bada le proprie emozioni perché c’è qualcosa di più urgente e pericoloso di cui occuparsi (magari sostenere l’altro che sta per cadere) .
Ascoltare le proprie emozioni che ci vengono dall’azione e non da qualcosa di pregresso.
Ecco questi sono solo alcuni degli elementi su cui si può ragionare attraverso questo esercizio fondamentale di relazione.
Quello che ho imparato è che esercitarsi alla relazione è centrale nell’allenamento dell’attore e del danzatore, è il principio base su cui si fonda un’equipe di lavoro, ogni spettacolo non è altro per me che un progetto comunitario, un gruppo di persone che hanno un ‘obiettivo che devono perseguire ogni sera ( che è poi raccontare una storia e per me è indifferente che la storia sia e solo fisica o con canti e parole) e l’obiettivo deve essere mantenuto vivo attraverso una prontezza fisica e mentale che rende ogni sera imprevista perché ogni sera le persone che condurranno l’azione saranno diverse, quindi anche se il materiale testuale o fisico sarà disegnato alla perfezione, ecco che entra in gioco l’umanità, quella di cui facevamo l’esempio prima immaginando lo scienziato alla conferenza, quell’allenamento di metodo che renderà pronti gli interpreti ad ascoltarsi realmente ogni sera, costruendo partiture che non si possono fare senza attenzione e senza coscienza, facendo sì che ogni sera sia speciale, insomma diversa, viva e che quindi includa chi guarda, che non assisterà al discorso specifico ma a qualcosa che pur essendo specifico, li farà sentire inclusi perché parte di un discorso universale cioè la relazione tra creature.
E l’interprete quindi non può andare in scena da solo?
Può farlo, per me passando attraverso un percorso di lavoro fortemente comunitario, che già implica un grande lavoro su di sé.
E’ necessario aggirarsi per lavorare su di sé con onestà, senza bleffare, quindi occorre aver esercitato con tanta generosità l’ascolto e avere tanta esperienza.
Ma sul lavoro da soli parleremo in altro capitolo.
Michela Lucenti
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