con Silvia Calderoni + Glen Çaçi + Ilenia Caleo + Fortunato Leccese + Paola Stella Minni
una produzione Motus con Festival TransAmériques, Montréal + Théâtre National de Bretagne, Rennes + Parc de la Villette, Parigi + La Comédie de Reims – Scène d’Europe, Reims + Kunstencentrum Vooruit vzw, Gent + La Filature, Scène Nationale, Mulhouse + Festival delle Colline Torinesi, Torino + Associazione dello Scompiglio, Vorno + Centrale Fies – Drodesera Festival, Dro + L’Arboreto – Teatro Dimora, Mondaino
con il sostegno di ERT (Emilia Romagna Teatro Fondazione) + AMAT + La Mama, New York + Provincia di Rimini + Regione Emilia-Romagna + MiBAC
in collaborazione con M.A.C.A.O, Milano + Teatro Valle Occupato, Roma + Angelo Mai Occupato, Roma + S.a.L.E. Docks, Venezia
motus ringrazia Judith Malina, Voina, Giulia, Soumya, Lillo, Giulio, Rauff, Pina e tutto il Comitato popolare di lotta per la casa di Roma, Giuliana Sgrena, Med Ali Ltaief (Dalì), Luca Scarlini, Anastudio, Exyzt, Mammafotogramma, Re-Biennale, tutti i partecipanti ai MucchioMisto Workshop
dur. 75min.
La nostra immaginazione utopica si è talmente atrofizzata nell’atmosfera asfissiante
un mondo morente che un mondo migliore.
Ma è giustamente quando l’utopia diviene inimmaginabile che è necessaria.
(“Les Sentiers de l’Utopie”, Isabelle Fremeaux e John Jordan, La Découverte, Parigi 2011)
Qual è il primo Rifugio dopo un uragano, un naufragio o un altro Evento Eccezionale? La risposta più immediata ci è parsa una coperta: è semplice da reperire e re-distribuire in ogni città… Tutti hanno a casa vecchie coperte… E le associazioni per assistenza ai migranti o ai senza tetto ne hanno sempre bisogno.
Ci siamo imposti di costruire “Nella Tempesta” solo con questo materiale. Niente scenografie costose e pesanti. Viaggiare leggeri. Non una scena da abitare, ma semplici oggetti quotidiani da trasfigurare, per poi essere redistribuiti dopo il nostro passaggio. Decrescita? Perché no, anche nella produzione teatrale si possono cercare altre modalità di “riduzione controllata” degli sprechi.
Chiediamo dunque di arrivare a teatro con una coperta, piccola o grande, leggera o pesante, vecchia o nuova: sarete voi a rendere possibile la messa in scena, che preferiamo immaginare come creazione partecipata. Allestiamo un campo, una città istantanea, nomade, come nomade, sino a ora, è stato il nostro percorso. È un invito che fa appello alla vostra disponibilità, nel totale rispetto della libertà di ciascuno di accettare o meno questa sollecitazione.
Ci sono persone per le quali il movimento, il poter scegliere dove e come spostarsi nel mondo è possibile, e possono decidere dove lavorare, amare, invecchiare. Altre per cui questo è proibito. Ed è soprattutto una questione di denaro. E quando non si ha niente, avere il mare – il Mediterraneo – è molto. Come un pezzo di pane per chi ha fame. Solo che, lentamente, questi ultimi cinquecento anni di sfruttamento coloniale, hanno inclinato l’orizzonte del mare. Non unisce, separa: è un mare in salita. Cementato da controlli alle frontiere, polizie internazionali, gestione selvaggia dei confini, omertà e silenzi. Il mare nostrum!
A chi appartiene davvero questo mare? Questo cimitero a cielo aperto, che protegge le sue coste e annega i suoi naviganti.
E non si tratta di uragani: è il mare appena mosso della nostra indifferenza “eurocentrica” che provoca stragi.
No, non c’è niente di romantico in queste tempeste…
Ma ci ostiniamo talmente a “usare” il teatro per penetrare queste ferite aperte, che ci siamo gettati “Nella Tempesta” e messi in viaggio, determinati a perseguire un’idea di ricerca che ci scaglia dentro i punti caldi del pianeta per captare forze telluriche e accumulare energie necessarie a vivere “In un mondo in cui non ci si può adattare e a cui non si può rinunciare, as citizens, as society-makers.”(Paul Goodman).
Siamo andati a Cartagine, da dove sono partite le navi della tempesta di Shakespeare e da lì è iniziato il viaggio, inseguendo una delle possibili rotte dei migranti che – come scrive Adriano Sofri – “Non chiamo disperati, perché occorre sperare forte per mettersi in viaggi come questi”. Poi da Tunisi a Lampedusa, da molti studiosi identificata come “possibile isola” scespiriana. Lì ci siamo messi all’ascolto: racconti di viaggi lunghissimi, cominciati in Africa subsahariana, segnati da perdite e indicibili umiliazioni, sino alla disumana detenzione in Libia… Di sogni e speranze verso un “Mondo Nuovo” che poi in Italia si è rivelato circoscritto al recinto di un CIE, o al terribile Palazzo Salaam di Roma –ultima tappa del nostro viaggio – dove vengono “depositati” i richiedenti asilo politico “proprio come animali”.
E dire che l’isola nell’immaginario rinascimentale non è solo un carcere – la dura roccia di Calibano – ma anche l’utopico luogo alternativo all’autorità, all’oppressione, come la descrive Gonzalo: (…) Niente più confini. Nessun sovrano, tutto in comune!
“Where is the master?” è una domanda che già dalle prime righe della Tempesta accende violenta la controversia sul potere.
E questa interrogazione rimbalza fra il Re e il nostromo della nave in balia di onde furenti.
“What cares these roarers for the name of King!”
Ma se il potere delle Onde non si governa, si può ricorrere all’astuzia fisica del “serfare” fra esse, del saper lavorare con l’onda, in solitudine o fabbricando scialuppe. Costruire insieme per meglio contrastare nuovi tumulti, più livelli di scompiglio e tante altre tempeste, sia sul piano individuale che di sistema.
La drammaturgia allora si spezza su più fronti; lo studio dei meccanismi del “controllo dei corpi” ci ha spinto a sottrarre il personaggio di Prospero dalla scena per collocarlo invisibilmente dietro al monitor di una camera di sorveglianza, o un faro cerca-persone. E un personaggio come Power, nello spettacolo, ironizza proprio sulla sua invisibilità. Il conflitto si fa più acuto anche perché scegliamo, come contro-testo, la rabbiosa poesia del martinicano Aimé Césaire, che, con “Une tempête”, sposta il baricentro in Africa e da voce al fiero desiderio di rivalsa di Calibano, che accomuna a Malcom X… Mentre Ariel/Silvia muove il fuoco dell’inedito dialogo con Caliban dentro il processo creativo stesso di una compagnia indipendente come la nostra, dove è impossibile tener separato teatro e vita… È allora inevitabile che anche un personaggio inconsapevole come Miranda entri in corto circuito con la reale biografia dell’attrice che l’interpreta – che è parte attiva del Teatro Valle Occupato- e che si faccia portavoce di chi è coinvolto nella resistente microfisica dei luoghi “occupati” o diversamente gestiti, che sostengono questo progetto.
Tutti gli attori entrano nell’opera attraversando le tempeste personali.
Per Glen, tempesta è avere dieci anni e vedere. È un crollo, un incendio, un camion che sfonda i muri di un’ambasciata in Albania… Tempesta è scegliere se partire o rimanere. E Glen ha scelto di partire, per l’Italia, da clandestino.
Tempesta è anche riascoltare la voce di Judith Malina del Living Theatre – con cui abbiamo aperto il progetto AnimalePolitico nell’estate 2011- che parla della necessità dello scatenare tempeste, non di proteggersi, proprio mentre l’uragano Sandy si abbatteva su New York. Eravamo là, con lei, a presentareThe plot is the revolution, quando è arrivato.
Con l’eco della sua voce si pianificano piccole tempeste da far esplodere fuori dal teatro, nella città. Basta rompere l’ordine quotidiano, come trascinare un albero per le strade…
Ed è ciò che decide Silvia/Ariel, quando sceglie l’indipendenza e diserta, abbandona il palcoscenico e il suo Maestro per gettarsi nel Rumore della Realtà… Calibano comincia una rivolta solitaria, rivendicandola sua isola, la sua libertà.
Ma quale libertà?
Il testo è tradito. Lo spettacolo si spacca. L’attore che simula Prospero abbandona il mantello. Il grande Panopticon del palco, dove “ciascuno al suo posto è visto, ma non vede” si svuota. Resta solo una domanda e la timida esortazione di Miranda, al pubblico. Nel silenzio.
Sta a noi trasformarci in lucciole e riformare in noi stessi una comunità del desiderio, comunità di bagliori,
di danze malgrado tutto, di pensieri da trasmettere. Dire sì nella notte attraversata da bagliori,
e non accontentarsi di descrivere il no della luce che ci rende ciechi.
Come le lucciole, Georges Didi-Huberman
La costruzione di una Zona Altra
Mai avremmo immaginato che la ricerca fra autori di Science Fiction – perché è su Philiph Dick e Aldous Huxley che inizialmente intendevamo lavorare – ci avrebbe all’opposto catapultato nel ‘600… Ma così è stato, proprio dopo aver scoperto che il titolo del libro di Huxley, Brave New World (Il Mondo Nuovo), è una citazione di Shakespeare.
Anche di riflesso a tanta letteratura distopica che avevamo studiato, ci siamo poi chiesti:
qual’ è il primo Rifugio per un corpo indifeso dopo un uragano, un naufragio o un conflitto bellico?
La risposta più immediata è stata: una coperta. E una coperta è anche l’oggetto più semplice da raccogliere e re-distribuire nelle città… Abbiamo così individuato “la scenografia” di Nella Tempesta: solo coperte che recuperiamo sul luogo della rappresentazione.
Non vogliamo più sprecare denaro in “scenografie morte” ma lavorare con materiali che al termine della tournée (e anche di ogni data) possano poi essere “donati” a spazi e associazioni indipendenti della città stessa, che ne hanno reale bisogno. Invitiamo quindi i cittadini-spettatori ad arrivare a teatro portando delle coperte da casa…
Perché non provare a trasformare il contratto teatrale in una formula aperta di reciproco scambio, andando a destrutturare lentamente, dall’interno, la prossemica della relazione tra chi agisce e chi guarda? Proviamo a utilizzare la “temporaneità” dell’evento scenico per creare una Zona Altra a partire dalle nostre stesse esperienze di vita nella comunità nomade, vagabonda, instabile e corsara che, in quanto artisti un po’ “sradicati”, stiamo condividendo.
Noi, “la Comunità di quelli senza comunità, senza la Noi-Comunità” ci siamo resi conto che la più veritiera forma di condivisione (al di là dell’attivismo) è quella che viviamo sul palco, con gli spettatori di ogni città in cui ci spostiamo.
In quanto «animali politici» creiamo dunque in scena un’esperienza di riappropriazione, sia degli spazi, sia dell’esperienza in sé, sempre immersi “nella tempesta” scespiriana dove, ricordiamolo, non si inscena un mondo che finisce, ma, come scrive Agostino Lombardo nella prefazione alla traduzione italiana, un mondo che comincia.
La proposta di un teatro che non sia spettacolo ma esperienza,
non imitazione o riflesso o sospensione o fuga dalla vita ma vita esso stesso.
Agostino Lombardo, nella prefazione italiana a La tempesta