Stevie Wonder concerto all’arena di Verona 5 luglio 2010 Un concerto-evento di due ore, destinato a restare nella storia dell’Arena di Verona insieme alle esibizioni di Frank Sinatra, Miles Davis e Pink Floyd. L’unica data italiana del tour europeo di Stevie Wonder, intitolato Song traveling (qualcosa come “Viaggiare nel tempo con le canzoni”), ieri sera all’anfiteatro, è stato il trionfo della musica multiculturale e multicolore di uno dei pilastri della cultura afroamericana. È un vero peccato che Stevie non abbia potuto vedere lo spettacolo dell’anfiteatro (detto senza ironia, ovvio) ma di sicuro ha sentito la folla che l’ha acclamato e applaudito dal primo istante, da quando s’è presentato sul palco con la sua chitarra/tastiera, esibendosi in una introduzione a My eyes don’t cry, con tanto di assolo disteso a terra. Prima di Master blaster, il suo tributo a Bob Marley, ha gridato: «Reggae!» e si è seduto alle tastiere, con un pianoforte gran coda a fianco. Ha un controllo tale sulla sua musica da permettersi qualsiasi cosa, dall’assolo al vocalizzo, senza mai sbavare. Sarà anche per questo che ieri non ha rispettato la scaletta, infilando canzoni inaspettate, reinterpretazioni improvvisate e continue divagazioni. Per As if you read… ha chiamato al suo fianco la figlia Aisha. Nella sua musica c’è così tanta gioia che è parso naturale doverla trasmettere a lei, abbracciandola. Tra l’altro è proprio lei l’ispirazione di Isn’t she lovely (Non è un amore?), una delle vette del concerto ma la qualità musicale delle sue composizione è avvertibile anche nei brani più ritmati, come nel funk di Higher ground. «Ma prima di cantarvi una canzone», ha detto Stevie, «vorrei che ne cantaste voi una italiana per me. Come fa quella Volare, o-oh…?». Il pubblico dell’Arena (oltre 10 mila persone, si è sfiorato il tutto esaurito) lo ha accontentato subito. Il suo sorriso, alla fine, è valso il prezzo del biglietto. Ma il coinvolgimento della gente in platea e sulle gradinate non si è limitato a questo: sembra che per Wonder il concerto sia suo quanto del pubblico che è venuto ad ascoltarlo. Così ha intonato coretti, ha incitato il “botta e risposta” della musica nera; e non si è dato pace fino a che tutti, ma proprio tutti, non hanno cantato con lui qualche strofa. Prima di Living for the city ha espresso il suo pensiero politico: «Diciamo basta all’oppressione del potere; diciamo mai più razzismo, mai più repressione. Io credo nella perpetuazione della stirpe umana e dico basta alle guerre: tutte potrebbero finire ora, se volessimo. Non si uccide nel nome di Dio né di Allah». Poi, il tributo a Michael Jackson con Human nature (ma Stevie non la canta) e il salto nel tempo con le canzoni del suo primo periodo. Nella notte (il concerto è iniziato pochi minuti prima delle 22) sono arrivate I wish, Free, Superstition e altre gemme.
Stevie Wonder concerto all’arena di Verona 5 luglio 2010 Un concerto-evento di due ore, destinato a restare nella storia dell’Arena di Verona insieme alle esibizioni di Frank Sinatra, Miles Davis e Pink Floyd. L’unica data italiana del tour europeo di Stevie Wonder, intitolato Song traveling (qualcosa come “Viaggiare nel tempo con le canzoni”), ieri sera all’anfiteatro, è stato il trionfo della musica multiculturale e multicolore di uno dei pilastri della cultura afroamericana. È un vero peccato che Stevie non abbia potuto vedere lo spettacolo dell’anfiteatro (detto senza ironia, ovvio) ma di sicuro ha sentito la folla che l’ha acclamato e applaudito dal primo istante, da quando s’è presentato sul palco con la sua chitarra/tastiera, esibendosi in una introduzione a My eyes don’t cry, con tanto di assolo disteso a terra. Prima di Master blaster, il suo tributo a Bob Marley, ha gridato: «Reggae!» e si è seduto alle tastiere, con un pianoforte gran coda a fianco. Ha un controllo tale sulla sua musica da permettersi qualsiasi cosa, dall’assolo al vocalizzo, senza mai sbavare. Sarà anche per questo che ieri non ha rispettato la scaletta, infilando canzoni inaspettate, reinterpretazioni improvvisate e continue divagazioni. Per As if you read… ha chiamato al suo fianco la figlia Aisha. Nella sua musica c’è così tanta gioia che è parso naturale doverla trasmettere a lei, abbracciandola. Tra l’altro è proprio lei l’ispirazione di Isn’t she lovely (Non è un amore?), una delle vette del concerto ma la qualità musicale delle sue composizione è avvertibile anche nei brani più ritmati, come nel funk di Higher ground. «Ma prima di cantarvi una canzone», ha detto Stevie, «vorrei che ne cantaste voi una italiana per me. Come fa quella Volare, o-oh…?». Il pubblico dell’Arena (oltre 10 mila persone, si è sfiorato il tutto esaurito) lo ha accontentato subito. Il suo sorriso, alla fine, è valso il prezzo del biglietto. Ma il coinvolgimento della gente in platea e sulle gradinate non si è limitato a questo: sembra che per Wonder il concerto sia suo quanto del pubblico che è venuto ad ascoltarlo. Così ha intonato coretti, ha incitato il “botta e risposta” della musica nera; e non si è dato pace fino a che tutti, ma proprio tutti, non hanno cantato con lui qualche strofa. Prima di Living for the city ha espresso il suo pensiero politico: «Diciamo basta all’oppressione del potere; diciamo mai più razzismo, mai più repressione. Io credo nella perpetuazione della stirpe umana e dico basta alle guerre: tutte potrebbero finire ora, se volessimo. Non si uccide nel nome di Dio né di Allah». Poi, il tributo a Michael Jackson con Human nature (ma Stevie non la canta) e il salto nel tempo con le canzoni del suo primo periodo. Nella notte (il concerto è iniziato pochi minuti prima delle 22) sono arrivate I wish, Free, Superstition e altre gemme.