Anniversario Berto Barbarani
Nel gennaio di settant’anni fa, il giovedì 27, Berto Barbarani (1872 – 1945) terminava i suoi giorni in una spoglia stanzetta della vecchia Maternità, nel rione di Santo Stefano, mentre era in macerie per i bombardamenti aerei l’amata Verona, da lui tante volte celebrata in poesia.
Il poeta di Verona: la vita e le opere di Berto Barbarani
In occasione del 70° dalla morte avvenuta nel ’45, mercoledì 28 gennaio alle 17.30 presso la Sala Farinati la Biblioteca Civica organizza la proiezione del documentario
Il poeta di Verona: la vita e le opere di Berto Barbarani
testo e regia di Anna Lerario, una produzione Video Cinema di Antonio Bulbarelli.
Si tratta della biografia in video del poeta dialettale tanto amato dai veronesi. Attraverso foto e documenti d’epoca, scene di fiction, i quadri di Angelo Dall’Oca Bianca e le più belle (ma anche meno note) poesie di Barbarani, il documentario ne racconta la baldanzosa giovinezza, le riflessioni sulla guerra, l’empatia con la natura, il difficile rapporto col successo, il dolore per la perdita dei propri cari e la tristezza della vecchiaia …
Questo documentario permette di conoscere l’‘alegra malinconia’ di un poeta che seppe cogliere l’anima della sua città e cantarne la bellezza e la magia. Ma permette anche di conoscere un pezzo importante della storia di Verona a cavallo fra ‘800 e ‘900, quando al fervore artistico-culturale si univano gli stravolgimenti urbanistici che avrebbero cambiato per sempre il volto della città.
Il documentario ha accompagnato nell’inverno 2012-2013 la mostra su Angelo Dall’Oca Bianca presso la Casa di Giulietta.
Anna Lerario, classe ’69, laureata al DAMS di Bologna, è regista e sceneggiatrice di numerose opere audiovisive a partire da mediometraggi e lungometraggi di fiction premiati in festival nazionali (22, Giglio d’oro al Valdarno Cinema Fedic e Fotogramma d’oro al Festival di Castrocaro del ’98; 2000, Giglio d’oro al Festival di Valdarno nel 2000) fino a una serie di documentari culturali: storico-artistici e sul restauro, una ventina fra tutti.
I più noti sono quelli legati a Verona: Nella bella Verona (15.000 copie distribuite), Verona per sempre: la città di Giulietta e Romeo, Labirinto di emozioni: la Provincia di Verona, Il poeta di Verona(distribuito in tutte le mediateche del Veneto e proiettato alla Mostra veronese su Angelo Dall’Oca Bianca del 2013), Cangrande: il Principe di Verona, proiettato alla settantesima Mostra del Cinema di Venezia e, appena terminato, La storia di Verona.
Quasi tutti i documentari su Verona sono stati proiettati con successo nelle più prestigiose sale della città, dal Teatro Nuovo alla Granguardia, e allegati al quotidiano L’Arena, ottenendo un’ottima distribuzione.
Berto Barbarani, pseudonimo di Roberto Tiberio Barbarani (Verona, 3 dicembre 1872 – Verona, 27 gennaio 1945), è stato un poeta italiano e un importante poeta dialettale veronese.
Berto Barbarani intraprese da giovane la carriera giornalistica, collaborando con il quotidianoL’Adige e in seguito con il Gazzettino. Si unì di forte amicizia con i colleghi poeti dialettali Alfredo Testoni (bolognese) e Carlo Alberto Salustri (noto come Trilussa, romano), assieme ai quali prese parte al Teatro Duse di Bologna ad un ciclo di serate promosse per beneficenza nel 1901 dalla Società “Dante Alighieri”. Celebre è una caricatura dei tre fatta da Augusto Majani, in arte “Nasica”, in cui il Barbarani, con la lira poetica tra le mani, è raffigurato con sullo sfondo l’Arena di Verona.
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Un girasole per Berto Barbarani
La targa dedicata al poeta veronese Berto Barbarani
Il piccione di Berto Barbarani
SALA FARINATI. Mercoledì, presente la regista
Così visse, amò
e compose
Berto Barbarani
Anna Perlini
Documentario sulla vita e i luoghi del poeta nel 70°della morte
Il centro storico di Verona con le sue osterie, il lungadige, il quartiere di San Giovanni in valle, il rione di San Zeno, la Valpantena, il colle di San Leonardo, Avesa, la Valdadige, il lago di Garda, il monte Baldo. Sono i luoghi in cui Berto Barbarani visse, amò, scrisse e soprattutto trovò ispirazione per le sue poesie che si ritrovano nel documentario Il Poeta di Verona: la vita di Berto Barbarani. Sarà proiettato mercoledì prossimo alle 17,30 nella Sala Farinati della Biblioteca Civica di via Cappello per commemorare il cantore di Verona nel 70° anniversario della sua morte, presente la regista Anna Lerario (è autrice anche del documentario su Cangrande presentato alla 70a mostra del cinema di Venezia). L’ingresso è libero.
Coprodotto dalla Provincia di Verona, il film ha già accompagnato la mostra su Angelo Dall’Oca Bianca organizzata dal Comune alla Casa di Giulietta. Attraverso documenti d’epoca, scene di fiction con attori in costume (Antonio Casella è il sosia perfetto del poeta), i quadri di Angelo Dall’Oca Bianca e le più belle poesie di Barbarani, il documentario racconta la baldanzosa giovinezza del poeta, le sue riflessioni sulla guerra, l’empatia con la natura, l’amore per la sua città, il difficile rapporto col successo e la tristezza della vecchiaia, permettendo di conoscere l’«alegra malinconia» di un poeta che seppe cogliere l’anima della sua città e cantarne la bellezza e la magia. E si rivive un pezzo importante della storia di Verona a cavallo fra ‘800 e ‘900, quando al fervore artistico-culturale si univano gli stravolgimenti urbanistici che avrebbero cambiato per sempre il volto della città.
Si vedono animarsi via via l’Arena che nel 1913 diede il via alle rappresentazioni liriche, il teatro Ristori, che ospitava i più stravaganti spettacoli satirici, le testate degli innumerevoli giornali che stimolavano il dibattito cittadino.
Il documentario cerca di raccontare la Verona di quel tempo, la sua «tenerezza fremente», il suo «morbin», attraverso lo sguardo insieme malinconico e acceso di Berto.
La sua allegra malinconia
Destino di chi nasce senza una famiglia felice
Berto Barbarani vagheggiò nella sua poesia l’ideale di una famiglia felice, evocata in un sonetto del 1892, significativamente intitolato Vita de fameia: « Quando che gavarem n’apartamento/ tuto par nualtri, par nualtri soi,/ co un leto grande e come un bastimento/e ‘na mota de cuerte e de ninsoi,/ e che se trovaremo ogni momento/ coi oci in aria e con in mente i fioi,/ alora magnaremo e pan contento/ che l’è meio del sucaro e i pignoi./ Alora, a sera, quando torno a casa/ te me corarè incontro su la scala/ co la to boca che la dise: Basa!/ Te basarò: staremo a la finestra/ co le teste tacà, spala con spala,/ fin che sul fogo boie la minestra».
DIEGO VALERI scrisse che Barbarani è «poeta del gioco d’amore», ma non poeta d’amore: ma ciò è vero solo in parte, e si tratta comunque di una scelta riconducibile a una sorta di inespugnabile pudore, più che all’incapacità di sentire la potenza di questo sentimento, come mostrano Molin molina, Ruda, ruda, Le tre cune, La fassenda del cor, senza dimenticare la Nina, nana, di affascinante, popolaresca semplicità.
E del resto, anche da un contesto scherzoso come La pita, traspare l’imbarazzo di una situazione irregolare: la madre affida al poeta il compito di tagliare un tacchino, ricavandone porzioni per i fratelli: «da anco’, spartissi ti, /faghe da omo, e taiela zo drita». L’operazione riesce male, e si conclude con una battuta apparentemente scherzosa: «Mi, ho ciapà la terina, / in testa a me fradel ghe l’ho piantà, / e ò dito: mama, falo ti el papà!»
A QUESTO SENTIMENTO della famiglia, da non turbare con precari cedimenti sentimentali, può essere ricondotta l’esclusione dalle raccolte successive di una garbata poesia presente nella prima edizione del Canzoniere veronese (Milano, 1900, pagina 134): Dimandando una fotografia a una artista de canto; «Za che adeso mi ve mando/ la impromessa poësia,/ fasso un ris-cio e ve dimando/ quella tal fotografia./ E guardè, ve racomando,/ che la sia bela e la sia/ granda granda, non badando/ de far tanta economia./ Così quando sarem persi/ e le nebie de un çiel mato/ ne farà malinconia,/ vu lesendome ne i versi,/ mi guardandove in ritrato,/ se faremo compagnia».
SEMPLICI SPUNTI, che potrebbero anche essere considerati poco rilevanti; e, d’altra parte, altre prove aspettavano il poeta, che nel Nuovo canzoniere veronese chiude anche questi spiragli, definendo mirabilmente la cifra del suo male di vivere: «Se la fortuna la me fa i corni,/ màstego amaro par tuto un dì;/ me scondo drento de ‘na osteria,/ nego la rabia drento nel vin…/ Torna l’alegra malinconia,/ caval del mato del me destin!»
La raccolta venne positivamente presentata da Giuseppe Fraccaroli, che Barbarani ringrazia con accenti commossi, anche perché l’autorevole recensione rispondeva alle riserve espresse da personaggi di spicco della cultura cittadina, come Giuseppe Biadego, direttore della Biblioteca Civica: «Ella, col suo magnifico scritto, il più bello, il più buono e sincero, il più dotto (di quella dottrina tanto simpatica, fresca e moderna) che conti la mia musa nel suo modesto bagaglio delle cose più care, Ella, ripeto, mi ha messo nel più dolce imbarazzo, quello di rispondere a atanto dono. Come potevo io pensare che un illustre e studioso uomo come lei, si occupasse così profondamente e con tanto amore, dell’antico convittore indisciplinato e ignorante di una volta, del boemo impenitente di oggi?… Ah caro professore, se sapesse quanto le sono riconoscente! Con quel suo scritto pare a me ch’ella abbia riconosciuto la mia arte ed infuso nel mio spirito accasciato da recenti sciagure un vigor nuovo».G.P.M.
GLI ULTIMI IN POESIA
Gian Paolo Marchi
Berto Barbarani nasce in una città segnata da povertà e degrado. «Porca Italia, i bastiema, andemo via!» Canterà «Pitochi» e «Pore done», sognerà pace sociale
Nel 1874 una folla inferocita per la legge sul macinato si raduna in Bra: in un volantino raccolto dalla polizia il sindaco Camuzzoni fa rima con «bastoni». Ancora peggiore la situazione delle campagne, dove i contadini pativano la fame: il regime alimentare si riduceva a polenta: ne conseguiva un’avitaminosi che portava spesso alla pellagra, che riempiva ospedali e il manicomio provinciale. Il celebre antropologo Lombroso era convinto che la malattia insorgesse a causa del mais guasto. Valgano queste pochi accenni a introdurre il momento storico-sociale in cui si colloca la nascita di Berto Barbarani. Ecco lo sfondo in cui si collocano i sonetti (1896) dei Pitochi (era previsto che seguisse un’altra collana di sonetti, intitolata Pore done, annunciata nella plaquette del 1900 El campanar de Avesa): in una città degradata si muove un’umanità afflitta, ragazzi rachitici, cenciosi e violenti, vecchie ingobbite, giovinette stuprate, famiglie borghesi ridotte in miseria; mentre il dramma dell’emigrazione è affidato alla protesta dei contadini raccolti all’osteria: «Porca Italia, i bastiema, andemo via!»
Immaginiamo di entrare nella casa di via Ponte Nuovo 5, in cui Berto venne alla luce; e lo facciamo sulla scorta di un documento anagrafico, il Foglio di Famiglia, denso di correzioni e integrazioni. Il capofamiglia è Bortolo Barbarani fu Natale, «negoziante in ferramenta», nato a Verona l’gennaio 1830; la moglie si chiama Adelaide Pojani fu Luigi, nata a Vago di Lavagno il 14 ottobre 1839. Dal matrimonio (21 gennaio 1861) naquero tre figli: Marianna (3 novembre 1861), Vittorio Natale (29 aprile 1866); e , il 3 dicembre 1872, Tiberio Roberto (Berto). In casa c’era anche una cugina, Maria Contri, di Cazzano di Tramigna e un ospite, Angelo Marzari di Mestre, impiegato delle Poste.
A sei anni, Berto fu affidato al Collegio vescovile. Una lettera del 21 novembre 1878 inviata alla madre dal prefetto di camerata dava notizie dell’ottimo profitto del bambino, che aveva pianto (ma «solo una nina») per aver lasciato la mamma, mentre qualche preoccupazione destava il suo atteggiamento curvo: «lo vado di continuo avvertendo che stia dritto perché altrimenti prenderà la curva e rimarrà qualche cosa gobbo». Gino Beltramini, che pubblica il toccante documento nella sua pregevolissima biografia di Barbarani, aggiunge che Berto frequentò in seguito il ginnasio-liceo Maffei, «donde si ritirò dalla frequenza, poco dopo la morte del padre (27 ottobre 1883), perché costretto ad aiutare la mamma» (Berto Barbarani. La vita e le opere, Vita Veronese, 1951). In realtà, la figura paterna era venuta meno ben prima: il Foglio di Famiglia, nello spazio relativo a Bortolo e Adelaide Barbarani ci informa infatti che i coniugi «vivono divisi dal 9/6/1875», da quando cioè Berto aveva due anni e mezzo. Il padre se ne era andato ad abitare in via di Mezzo Porta Vescovo, successivamente in via Campofiore, per poi tornare a casa nel dicembre del 1881. La situazione è pesante, e pure la madre riesce a far studiare i due figli maschi; anche Marianna riceve una certa istruzione, ma è destinata comunque a sacrificarsi. Berto, ancora una volta, è costretto a una vita fuori casa, passando dal Collegio Vescovile al Collegio Provinciale Maschile di Sant’Anastasia dove rimane dal 1882 al 1887, dove era rettore il grande grecista Giuseppe Fraccaroli, autore di una originale traduzione in dialetto veronese delle Donne in parlamento di Aristofane.
Nella famiglia di Berto la figura paterna ha un ruolo marginale. Realtà non infrequente, che si riscontra anche nel caso di Salgari e di Simoni: padri deboli, trasgressivi, inetti o depressi lasciano il posto a madri energiche e talora possessive. Così avviene nella commedia di Simoni La vedova: la madre, Adelaide (lo stesso nome della madre di Barbarani) gode allorché Maddalena, la vedova del figlio che l’aveva sposata contro la sua volontà, manifesta l’intento di risposarsi: e mentre il marito non nasconde la sua delusione per le nuove nozze che l’avrebbero privato della consuetudine con la bella nuora, la madre si compiace di essere finalmente sola a coltivare la memoria del figlio. Ancor più possesiva è la Letizia di Congedo, che costringe il figlio a rinunciare alle nozze con Dirce, ragazza dai trascorsi non limpidi, con una serie di ricatti psicologici («E tu vuoi sposare lei, che è stata quel che è stata… Ma io mi farò coraggio, andrò a spasso con lei a breccetto…»), sigillati con la dichiarazione che un male oscuro le lascia pochi mesi.
La madre di Berto non è certo assimilabile ai personaggi di Simoni anzi fece di tutto per colmare silenziosamente la pesante assenza della figura paterna. Alla situazione allude Renato Simoni nell’applauditissimo discorso del 18 dicembre 1921 al Teatro Filarmonico, associando la madre di Barbarani a quella di Dall’Oca: «Veronesi! Lasciatemi rievocare il ricordo di due case. Una è in un’antica via diritta, sulla riva sinistra dell’Adige e vi abitava una vecchietta tutta candida, la cui maternità, dopo lunghe pene e maggiori fatiche e umili sacrifici, aveva raggiunto un sorriso di riconoscenza alla vita e che solo con la vita si spense. L’altra era sulla sponda opposta, quasi di fronte, in una antica via tortuosa e un’altra mamma vi abitava, sempre in moto, stanca e infaticabile fra il nero ferrame della sua bottega. E l’una era la mamma di Angelo, e l’altra era la mamma di Berto, e tutte e due avevano molto sofferto».
«SASSINÀDA». Viste le rovine dell’alluvione nel 1882 e quelle delle bombe nel 1945, non poteva avere addio più straziante
La città perde il suo poeta
tra le macerie della guerra
Giuseppe Silvestri
Arguto fino alla fine. Il medico gli guarda in bocca e lo vuol rassicurare: «Ha una bella lingua» E lui: «Guarda un po’ che strano. Con una lingua così bella, ho sempre scritto solo in dialetto»
venerdì 09 gennaio 2015 CULTURA, pagina 45
Tra le macerie delle belle case infrante, Verona perdette il suo poeta.
Berto Barbarani fu portato all’ospedale della Maternità pochi giorni dopo il disastroso bombardamento del 4 gennaio 1945(…)
La stanza di Barbarani era proprio di fronte alla mia, nel medesimo corridoio. Per arrivarvi egli, portato in barella, aveva attraversato una corsia piena di malati, gente modesta, in gran parte lavoratori rimpatriati dalla Germania stroncati dalle fatiche, dai disagi e dalle privazioni. V’erano anche molti vecchi miserabili e macilenti che, trovati per strada o presentatisi alla porta dell’ospedale in quelle rigidissime giornate, erano stati accolti per pietà, ché la miseria la fame il freddo e la sporcizia erano i mali di cui specialmente soffrivano, oltre a quelli d’essere senza tetto, soli al mondo e gravati d’un gran numero d’anni (…)
IL POETA veniva a morire. Questa l’immediata triste sensazione ch’io ebbi quando, uscito nel corridoio, mi trovai davanti la barella posata sul pavimento e, chinandomi sul giacente, lo riconobbi. Da più di due anni non lo vedevo; e se non fosse stato per l’inconfondibile sua barba e per l’occhio sempre vivo e penetrante che si fissò su di me senza, nella penombra, riconoscermi, penso che non l’avrei ravvisato, tanto la magrezza aveva incavato e incupito quel volto cosparso di cereo pallore. Due donne lo accompagnavano: la fidata infermiera ed un’amica devota e buona che gli prodigherà fino all’ultimo la sua affettuosa assistenza.
Un’ora dopo entrai nella stanza. Barbarani giaceva supino nel letto. Portava in capo un berretto di seta turchina di foggia raffaellesca, che non si toglierà mai fino a poche ore prima della morte. Mi dissero ch’egli nutriva una particolare affezione per quel copricapo perché era quello che Dall’Oca Bianca usava nello studio e in casa a protezione del nudo e lucido cranio che aveva disdegnato, negli ultimi anni, la bizzarra civetteria della famosa parrucca. Come fui accanto al letto e lo salutai per nome, chinandomi a baciarlo in fronte, Berto subito mi riconobbe e il suo volto s’illuminò d’un lieto sorriso. Trasse di sotto le coltri la mano destra — una mano lunga, scarnita e bianca — e me la porse. La strinsi nelle mie, ve la tenni a lungo, fissando negli occhi il malato che a sua volta mi guardava. Indovinai che voleva dirmi qualche cosa, ma non osava. Lo tolsi d’imbarazzo.
— Lo sapevi che ero qui? — gli chiesi.
— Sì — mi rispose — E sono tanto contento di trovarti. Adesso mi farai compagnia. Sono stato sempre informato di quello che ti è successo e ne ho avuto tanta pena. Mi hai anche scritto quando è morta l’Anita. Scusa se non ti ho risposto. Ma è tanto tempo che non scrivo. Ti ringrazio adesso.
Naturalmente tutto questo me lo disse in dialetto, nel suo dialetto. E di lì a poco mi domandò:
— Senti: se vede l’Adese da qua? — E come io gli risposi che l’avrebbe potuto vedere salendo sulla terrazza dell’ospedale, parve molto deluso. Forse capiva che fin lassù non sarebbe mai arrivato, che non avrebbe mai più rivisto il bel fiume, fonte e motivo del suo canto (…)
Accanto al malato di giorno c’era una nipote; di notte vegliava la fedele infermiera. I medici lo visitavano mattina e sera. E poiché, esaminandogli la lingua, gli dicevano sempre che era bella, cioè pulita, Barbarani una volta osservò argutamente:
— Guarda un po’ che strano: con una lingua così bella io ho scritto sempre in dialetto (…)
POICHÉ le condizioni dell’infermo andavano lentamente peggiorando, e trascorreva notti agitatissime, tanto che dalla mia stanza udivo i suoi lamenti e le sue grida, e gli assalti di tosse violenta che gli squassavano il petto, decidemmo di non più trasportarlo al rifugio. Tuttavia egli aveva brevi periodi di sollievo; allora s’illudeva di potersi alzare l’indomani e i medici stessi secondavano pietosi questa sua illusione. In realtà diveniva sempre più debole; pareva che di ora in ora si smagrisse. Soltanto gli occhi aveva vivissimi, e le mani sempre inquiete. Spesso mi trattenevo accanto al suo capezzale, per confortarlo, per distrarlo. In verità, sentivo che avrei dovuto dirgli: «Hai ragione, Berto, di andartene. Questo non è più mondo per te. La poesia non esiste più. La bontà, la carità, la cortesia, l’amore, l’onestà, la bellezza che tu hai cantato non valgono più nulla; sono distrutte, scomparse.
«OGGI trionfa solo la forza; non quella ardita e franca, onesta e generosa dei “cavalieri antiqui”, che forse a te piaceva; ma una forza malvagia e scempia, una violenza cieca e brutale che, per essere governata da una volontà e da una ragione, è peggiore, più colpevole e più mostruosa di quella belluina guidata dall’istinto. Sono più di cinque anni che gli uomini, in tutto il mondo, non fanno che uccidere e distruggere, e studiar nuovi e più perfezionati e micidiali sistemi per continuare ad uccidere e a distruggere. Sai, anche della tua Verona hanno fatto strazio. Tu hai visto, tanti e tanti anni fa, cadere il “bel ponte Novo”, e “soto la piova/ una a la volta, chiete chiete chiete/ morir le case de la Binastrova”; hai visto dalle furie del patrio fiume “la cità sassinada a sangue vivo”. E poi hai visto ad uno ad uno, silenziosi e rassegnati, sparire i mulini, i tuoi vecchi e cari amici che facevano “comarègo” là in Campagnola e dietro Santa Anastasia, dove tu andavi ad ascoltarli di notte sotto l’argenteo raggio della luna. Ed anche hai visto distruggere, in nome della tecnica e del progresso, le casette di Santo Stefano che erano così belle e che, come i mulini, non avrebbero mai fatto male a nessuno. Ma credi, Berto, tutto questo che tu hai visto è niente. La tua bella città adesso te la massacrano sotto un uragano di ferro e di fuoco. Meglio che tu non veda come l’hanno ridotta. Ne moriresti di crepacuore. Meglio che tu non vada per le sue strade mutile e martoriate, che più non riconosceresti, dove più non ti riconoscerebbero. Perché non solo la tua Verona è invasa da barbari e da foresti, ma persino la sua, la tua gente è mutata. Davanti a San Zeno, Minico Bardassa e i suoi compagni non giuocano più al tamburello, ma tagliano gli alberi della piazza per vendere la legna a caro prezzo; e i “pitochi”, salvo quei poveri vecchioni che son di là, vanno più volentieri a rubare che a mendicare; e le famiglie divise e disperse non si radunano più intorno alla “soca de Nadal”; la discordia e l’odio spesso le esasperano e le separano. E anche la Nina, credimi Berto, anche la tua Nina non è più la stessa. E diventata venale, frivola e bugiarda; e Dio non voglia che faccia l’occhietto ai tedeschi. Dammi retta, Berto, è meglio che tu te ne vada, senza rimpianti. Questo mondo bastardo e marcio, pazzo e sanguinario, tu non lo puoi capire nè esso, oggi, ti può capire. Ma la tua poesia rimane. E sta sicuro che quando l’uragano sarà passato, la tua gente rinsavita tornerà ad essa come ad una fresca polla, come ad un balsamo che mondi e sani il suo spirito intossicato».
QUESTO avrei dovuto dire al poeta che moriva. Invece bisognava fargli animo, portare la sua mente lontana dai dolorosi ricordi recenti, da quel letto di pena, dalla sorte imminente che egli certamente presentiva nella lucidità dello spirito e nel tormento della carne. E allora, per staccarlo dal presente, gli rievocavo liete visioni del passato e gli balenavano speranze d’avvenire: «Ti ricordi, Berto, quando hai letto la prima volta le tue poesie fuori di Verona? Fu alla Famiglia Artistica di Milano, mi pare nel 1900. Hai avuto un tale successo che subito vollero un’altra dizione. Poi le riunirono tutte in una bella edizione numerata e la illustrarono, insieme e d’accordo, i più noti pittori di quel tempo, Mentessi e Belloni, Galli e Rossi e, naturalmente, Dall’Oca Bianca. È stata la tua consacrazione nel gran mondo dell’arte. Con El Rosario del Cor e con I Pitochi c’erano anche Le Montebaldine e El Campanar de Avesa, che avevi composto da poco. E da Milano ti sei mosso per la conquista d’Italia, perché poi ti hanno invitato e chiamato a recitare dappertutto, come Pascarella e Trilussa e Testoni, e molte volte insieme con loro. E ti ricordi la prima edizione de I Pitochi? Ottocento copie, andate quasi tutte in dono agli abbonati del democratico “Adige”, dove tu eri cronista. E i tuoi amici fondarono subito i l circolo dei “Pitochi” con sede nel retrocucina dei “Torcoloti”. S’era nel ’96. Venticinque anni dopo — e allora c’ero anch’io — celebrammo le tue nozze d’argento con I Pitochi. E venne Simoni a fare quel commovente discorso per te e per Dall’Oca, che celebrava anche lui qualcosa, il quarantesimo anniversario di quell’esposizione milanese del 1881 che gli aveva dato la fama.
«Ti ricordi la sala del Filarmonico? C’era tutta Verona e tante e tante illustri persone — scrittori, pittori, musicisti, ammiratori — venute da ogni parte a farti onore. Forza Berto, pensa che l’anno venturo saremo nel ’46 e de I Pitochi celebreremo le nozze d’oro. Ma per arrivarci devi guarire, e per guarire devi fare quello che ti dicono i medici» (…)
All’inizio della terza settimana di degenza il malato si aggrava sensibilmente. Trascorre buona parte del giorno in profondo sopore, non parla quasi più, la mente di ora in ora si offusca, perde il controllo degli organi intestinali. Solo la notte è inquieto e la tosse lo tormenta. È un povero organismo da tempo in disfacimento che si consuma e si spegne inesorabilmente.
Nella notte del 26 gennaio comincia l’agonia. Al mattino entro per tempo nella stanza, mi avvicino, lo chiamo: «Berto! Berto». Ode la voce ma non la riconosce. Gli occhi restano chiusi e mi risponde un gemito. I medici dichiarano che non c’è più nulla da fare; e, per non tormentarlo inutilmente, sospendono anche un’ultima trasfusione di sangue che era stata ordinata.
C’è al capezzale l’unica nipote del poeta; e c’è l’amica fedele e devota, Nella Vianini. Poi arriva il vecchio medico di casa, il dottor Ceschi, che non lo ha abbandonato mai. Si china sul morente, gli ascolta il cuore. — Non soffre — egli dice — Sogna (…)
Ma dopo un paio d’ore si bussa alla mia porta. Capisco. Balzo dal letto ed accorro. Una suora, inginocchiata, prega sommessa. In un angolo, mute, lacrimanti, le due donne.
ANNIVERSARIO. Settant’anni fa scompariva il poeta di «San Zen che ride» e dei versi che interpretano l’anima popolare La morte di Berto Barbarani narrata dall’amico
Lorenza Costantino
Giuseppe Silvestri restò in ospedale accanto al cantore di Verona Una testimonianza storica
venerdì 09 gennaio 2015 CULTURA, pagina 45
Nel gennaio di settant’anni fa, il giovedì 27, Berto Barbarani (1872 – 1945) terminava i suoi giorni in una spoglia stanzetta della vecchia Maternità, nel rione di Santo Stefano, mentre era in macerie per i bombardamenti aerei l’amata Verona, da lui tante volte celebrata in poesia.
Il poeta moriva staccato dai ricordi della sua casa in via della Pigna, e senza l’amata compagna Anita, mancata poco tempo prima. Ma oltre all’assistenza di una nipote e di un’infermiera, il grande cantore della città ebbe al proprio capezzale il conforto di una presenza cara. A tenergli la mano nell’ultimo respiro ci fu, infatti, il giornalista Giuseppe Silvestri, classe 1899, che era stato direttore dell’Arena nel breve periodo fra la caduta di Mussolini, il 25 luglio 1943, e la ripresa del potere da parte dei nazifascisti.
Barbarani e Silvestri, pur divisi dalla differente età, erano molto amici: l’uno e l’altro giornalisti (Barbarani per L’Adige e Il Gazzettino), l’uno e l’altro veronesi innamorati di Verona, l’uno e l’altro inseriti nel cenacolo culturale cittadino che annoverava il pittore Angelo Dall’Oca Bianca, il drammaturgo Renato Simoni, il musicista Carmelo Preite
Silvestri, mai prono al regime, nel dicembre del 1943, instauratasi dopo l’armistizio dell’8 settembre la Repubblica Sociale Italiana dell’ultimo fascismo collaborazionista con i tedeschi, era stato catturato a causa dei suoi editoriali «denigratori verso il Fascismo e le sue istituzioni» e rinchiuso agli Scalzi: l’ex convento dei frati carmelitani allora carcere cittadino, Le celle che ospitarono anche Galeazzo Ciano, ex ministro degli Esteri e genero di Mussolini, prima che egli venisse fucilato al poligono di tiro di San Procolo per alto tradimento con altri quattro gerarchi firmatari dell’ordine del giorno Grandi al Gran Consiglio, che il 25 luglio 1943 aveva messo in minoranza Mussolini, offrendo al re l’opportunità di deporlo.
Silvestri era stato condannato a dieci anni; scontò invece dieci mesi. Nell’ottobre del 1944, con gli occupanti tedeschi ormai consapevoli della sconfitta imminente, riuscì a riottenere la libertà. Non stava bene; il medico Giorgio Cevolotto — «al quale debbo probabilmente la salvezza», scrisse Silvestri — lo fece ricoverare nella Maternità, diventata ospedale cittadino perché quello di Borgo Trento era stato requisito dai tedeschi per le loro forze armate. Ed è alla Maternità che Silvestri è testimone dell’agonia di Berto Barbarani: la racconta in un capitolo del suo libro Albergo agli Scalzi, di cui pubblichiamo in questa pagina ampi stralci. Il professor Cevolotto, nominato nel testo, era il medico che aveva concesso il proprio studio come stanza per Barbarani. Lì, nella «piccola camera rettangolare rivolta a tramontana», Silvestri si intrattiene con l’amico poeta: «Sono stato sempre informato di quello che ti è successo», gli dice Barbarani, «e ne ho avuto tanta pena»: allude all’arresto e alla carcerazione. Poi, la domanda del moribondo ancora aggrappato alla vita: «Senti, se vede l’Adese da qua?» Silvestri scrisse, attorno a questo struggente interrogativo, le pagine più intense del suo diario, dedicato agli ultimi, terribili anni di guerra a Verona. Un omaggio al poeta che ne seppe interpretare l’anima.
Scarcerato
dagli Scalzi
era rifugiato
tra i malati
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venerdì 09 gennaio 2015 CULTURA, pagina 45
Giuseppe Silvestri
Il testo che pubblichiamo è tratto dal libro di Giuseppe Silvestri (1899-1973) Albergo agli Scalzi, così intitolato dalle carceri dove l’autore fu rinchiuso mentre vi erano prigionieri anche Ciano e gli altri gerarchi poi fucilati. Il libro fu il primo a ricostruire questi fatti ma ricorda anche la morte del «timido, delicato e gentile poeta cui, nascendo, per strana ironia era stato imposto il nome di Tiberio». Edito da Garzanti nel 1945, il libro fu poi rivisto dall’autore e pubblicato da Neri Pozza nel 1963: da questa edizione è preso il testo. Nel quadro qui sopra, della Galleria d’arte moderna Achille Forti (ora esposto a Palazzo Barbieri) Barbarani è ritratto dall’amico Dall’Oca con due innamorati e i «pitochi», temi della sua poesia.